Non c’è solo il gas ma anche il grano e il mais. L’85 per cento della produzione mondiale di grano viene da dieci paesi, tra i quali Russia ed Ucraina ai primi posti, assieme a Cina, Usa e India.

I paesi arabi, l’Europa ma anche l’Africa o il Brasile dipendono da tali produttori. La guerra in corso tra due dei più grandi esportatori rende il mercato globale dei cereali imprevedibile e impone una forte pressione sui prezzi.

Secondo la direttrice del Fmi, Kristalina Georgeva, l’invasione dell’Ucraina «mette a rischio la sicurezza alimentare globale» mentre per l’Onu sono a rischio più di 40 paesi africani e meno sviluppati che importano almeno un terzo del loro grano dall’Ucraina e dalla Russia, dei quali 18 fino al 50 per cento.

Tutti possono toccare con mano la crisi alimentare: in Italia il pacco da mezzo chilo di pasta è schizzato da 90 centesimi a 1,40 euro. L’Unione europea è una grande produttrice di grano e mais ma non soddisfa il proprio fabbisogno.

Ad esempio: il nostro paese importa il 64 per cento del grano e il 53 per cento del mais, servendosi in particolare dell’Ungheria (oltre il 35 per cento del totale delle importazioni italiane).

Tuttavia, dall’inizio della guerra Budapest ha sospeso le esportazioni (contro le regole del mercato unico europeo) iniziando a stoccare. Anche gli Stati Uniti stanno limitando le loro vendite all’estero.

Dall’Ucraina la produzione è calata anche perché i porti sul mar Nero sono chiusi e la navigazione quasi interrotta. Sul mais – fondamentale per l’alimentazione animale – vale lo stesso discorso.

Non c’è solo la guerra a pesare sui costi o sulla produzione di cereali: c’è la crisi climatica (diminuzione della produzione del Canada); quella pandemica (serrate logistiche a causa dei No-vax in vari paesi); l’accaparramento della Cina (che nel 2021 ha stoccato il 60 per cento della produzione mondiale).

Prezzi alle stelle

Per chiarire: nel 2021 una tonnellata di grano costava 180 euro e quella di mais 175. Oggi costano rispettivamente 440 e 314 euro, come ci avvisa allarmato – intervistato da Luca Telese su Tpi – il presidente di Filiera Italia, Luigi Scordamaglia.

Gli aumenti si stanno allargando alla carne, allevamenti, latticini, uova e così via. L’incrocio tra l’aumento dei prezzi dell’agroalimentare e quelli dell’energia farà sì che in Europa molte aziende agricole chiuderanno, non potendo far fronte a tale stress economico.

La guerra ha dato il colpo di grazia: basti ricordare che Russia ed Ucraina assieme contano per il 30 per cento della produzione di grano mondiale, del 20 per cento del mais e dell’80 per cento dell’olio di semi.

Il conflitto pone un dilemma all’Europa: anche se continua ad importare gas dalla Russia deve considerare la possibilità di una stretta sui cereali. Così come negli ultimi vent’anni ha sbagliato politica energetica (affidandosi solo al gas russo senza passare alle rinnovabili), l’Europa ha anche sbagliato politica agroalimentare, smantellando intere produzioni cerealicole. Alla fine se la caverà ma pagando di più.

Chi invece soffrirà più degli altri saranno Africa e Medio Oriente. Fino ad ora in Africa occidentale le importazioni di grano sono venute dalla Francia ma non è sicuro che Parigi possa continuare ad esportarvi come adesso la metà della sua intera produzione.

Da un po’ di tempo il grano russo sfida quello di Parigi con costi più bassi e l’Algeria è già passata completamente a fornirsi da Mosca. Dalla “battaglia del grano” ci si deve aspettare un aumento dei costi e la ripresa delle “rivolte del pane”, com’è già accaduto in passato.

Rivolte arabe

Le rivolte arabe del 2011 furono anche l’effetto dell’aumento del prezzo del pane: a quell’epoca la tonnellata di grano era salita fino a toccare i 280 euro. Non sorprende che numerosi paesi africani guardino ora alla Russia, diventata negli ultimi 20 anni la prima esportatrice mondiale di grano (la Cina resta la prima produttrice ma ha bisogno di importare).

Fino alla fine della Guerra fredda l’Urss dipendeva dalle esportazioni cerealicole americane: ora avviene l’inverso. La modernizzazione dell’agricoltura russa ha messo in valore terre poco o male sfruttate, tanto che Mosca aveva accarezzato l’idea di una coalizione di produttori di cereali (tipo Opec) con Kazakistan e Ucraina. 

Già oggi la Russia è il primo esportatore di grano in Turchia, Libia, Siria (nelle aree controllate dal regime di Assad non c’è mai stata penuria di pane), Algeria, Iran ed Egitto: il valore della carta geopolitica di tale commercio salta subito agli occhi.

L’Africa spera nella Russia per non dover subire gli scossoni economici dell’aumento dei prezzi del mercato e soprattutto le conseguenze sociali: ecco come si spiegano molte astensioni africane all’assemblea generale sulla mozione di condanna dell’invasione in Ucraina.

In particolare l’Egitto e l’Algeria restano molto vulnerabili alle variazioni dei prezzi perché devono importare la quasi totalità del fabbisogno in grano ed altri cereali. Tuttavia numerosi paesi africani sono anche clienti di Kiev e cercano di barcamenarsi.

La Cina resta il primo produttore mondiale ma è lontana dall’autosufficienza. Anche per Pechino vale ciò che è già accaduto in Africa sub-sahariana e in altre parti dell’Asia: l’occidentalizzazione dei consumi provoca un aumento esponenziale del bisogno di pane e dei derivati della farina.

Sia in Cina che in Africa si consumavano tradizionalmente altri cereali come il miglio o il sorgo. La dieta tradizionale cinese – come quella di molti paesi asiatici –  ruotava attorno all’economia del riso ma oggi tutto è cambiato e le autorità cinesi devono far fronte ad una domanda crescente di grano. 

La situazione più fragile rimane quella della parte sub-sahariana del continente africano. Secondo i dati di Nigrizia, nel 2020 i paesi africani hanno importato dalla Russia prodotti agricoli per un valore di 4 miliardi di dollari tra cui circa il 90 per cento del grano consumato.

Dopo l’Egitto, i maggiori importatori sono stati Sudan, Nigeria, Tanzania, Algeria, Kenya e Sudafrica. L’Ucraina dal canto suo ha esportato in Africa prodotti agricoli per un valore di quasi 3 miliardi di dollari dei quali il 48 per cento è stato grano, il 31 per cento mais e poi olio di semi di girasole e così via.

L’aumento dei prezzi del comparto agroalimentare colpirebbe un’Africa già provata dalla crisi indotta dalla pandemia a cui si aggiunge l’attuale siccità. Secondo gli esperti il prezzo del pane potrebbe aumentare del 30 per cento in diversi paesi del continente, provocando instabilità politica e crisi violente.

Non tutti i paesi africani e mediorientali possono permettersi il programma di sussidi dell’Egitto che consente al 70 per cento della popolazione di acquistare pane a prezzi calmierati. Anche al Cairo il prezzo del pane non sovvenzionato è già salito del 50 per cento.

L’aumento dei prezzi potrebbe danneggiare il Libano che sta vivendo una grave crisi politica ed economica e che importa più dell’80 per cento dei suoi cereali dall’Ucraina. Altri due paesi a serio rischio sono la Libia e la Somalia anch’essi dipendenti da Kiev.

Chi rischia la carestia

Esiste un aspetto multilaterale della crisi dei prezzi agricoli: secondo il direttore esecutivo del Programma alimentare mondiale, David Beasley, nel 2021 il Pam ha acquistato il 50 per cento delle sue riserve di grano dall’Ucraina e dalla Russia e in futuro potrebbe avere difficoltà a reperire nuovi esportatori.

La Turchia è un grande importatore dalla Russia ma non teme diminuzioni grazie alle sue buone relazioni e al suo attuale ruolo di mediazione.

Ciò che preoccupa Ankara è invece l’aumento dei prezzi, già in risalita prima della guerra, che mette a dura prova un’economia in fase di peggioramento. È complesso elaborare previsioni precise sugli effetti della guerra in Ucraina per ciò che concerne gli approvvigionamenti di grano e dei prodotti alimentari in generale.

Molto dipenderà dalla durata del conflitto, dalla capacità degli ucraini di procedere alla semina in tempi di guerra e poi al raccolto; dalle vie di trasporto e spedizione delle forniture, dall’impatto delle sanzioni sulla Russia.

Nella lunga lista dei paesi a rischio carestia ci sono anche Congo, Burkina Faso, Sudan e Sud Sudan. In alcuni casi l’emergenza grano potrebbe trasformarsi in catastrofe, come per lo Yemen in guerra che ha oltre 17 milioni di persone che necessitano di assistenza alimentare e una quota crescente della popolazione a livelli di vera inedia.

Attualmente in tutto il paese oltre 2 milioni di bambini sono gravemente malnutriti, inclusi quasi mezzo milione in stato acuto e a rischio di vita. 

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