La guerra dell’Ucraina è molto più larga dell’Ucraina. Un primo segnale di sommovimenti che si profilano fuori dall’Europa arriva da un paese nostro dirimpettaio, la Libia. Attraverso il suo ministro degli Esteri, il governo di Tripoli ha convocato il diplomatico che rappresenta il presidente Abdel Fattah al Sisi e gli ha chiesto conto di dichiarazioni rese da alcuni media vicini al regime egiziano.

Dichiarazioni tutte convergenti su una semplice tesi: la Libia sta all’Egitto come l’Ucraina sta alla Russia, perché non dovremmo profittarne e invadere il nostro vicino per sottrargli qualcosa (presumibilmente l’est petrolifero)?

Tripoli non si sarebbe così allarmata se il primo a suggerire di mandare l’esercito a fare shopping di territori oltreconfine non fosse stato Amr Adi, popolarissimo presentatore televisivo. Non esattamente un genio (ha suscitato un vespaio con una tirata in tv contro le mogli che non servono docilmente il marito: «a che scopo sposarsi, altrimenti?»). Ma forse anche per questo limite, o per questa qualità, è assai vicino ai servizi segreti egiziani. Il sospetto è che al Sisi lo usi per sondare la reazione dell’opinione pubblica all’idea di una guerricciola in Libia.

I timori libici

Il momento sarebbe favorevole per l’Egitto. Torna a crescere la frizione tra un ovest caotico, con capitale Tripoli, e un est controllato dal generale Kalifa Haftar. Costui governa con l’assassinio e le camera di tortura. È assai impopolare ma ha dalla sua milizie salafite, ex militari di Gheddafi e soprattutto apporti stranieri: droni cinesi offerti dagli Emirati arabi, consiglieri e intelligence egiziani, le migliaia di irregolari russi inquadrati nel Gruppo Wagner.

Formalmente un’agenzia privata, di fatto un’emanazione di Mosca, quelli della Wagner sono noti per l’abitudine di non fare prigionieri. Dopo averli utilizzati in Siria e in Libia Putin potrebbe spostarne buona parte in Ucraina. Ma neppure questo acquieterebbe le apprensioni libiche. Che hanno una doppia origine. 

Rivolta del pane

Da una parte, il forte aumento del prezzo del grano, il principale indicatore di instabilità nella regione: non a caso diverse “primavere arabe” sono nate come “rivolte del pane”. E anche per questo in Egitto il pane è un genere sovvenzionato largamente dal 1941 (oggi il costo di una pagnotta equivale grossomodo alla nona parte del costo di produzione).

Un innalzamento dei prezzi è considerate un attentato al contratto sociale, e la piazza, come è già accaduto in passato, reagisce con rabbia. Ma ora accade che i futures sul frumento siano aumentati della metà dal 2 febbraio e la loro ascesa non si fermi, ieri viaggiavano intorno a un +7 per cento sul mercato americano; inoltre sui prezzi al minuto pesa anche l’aumento del petrolio, che si riflette sui costi di trasporto fino ai mercati locali, e in prospettiva l’aumento dei fertilizzanti, se derivati dagli idrocarburi.

Tutto questo inciderà tragicamente sulle vite di 276 milioni di esseri umani già ora alla fame in 81 nazioni, prevedono analisti del World food program. Ma in Egitto, che da solo assomma a più di 100 milioni di abitanti, la crisi alimentare metterà a rischio la stessa sopravvivenza del regime.

Il paese è il più grande importatore al mondo di grano, che per il 60/80 per cento riceve (o meglio, riceveva fino alla settimana scorsa) da Russia e Ucraina. Se non fosse in grado di calmierare il prezzo dei generi alimentari, come altro la casta militare potrebbe nascondere inefficienze, ruberie, violenze brutali, se non con una guerra vittoriosa? E quale preda più facile che la Libia, stato fallito, in pezzi, quasi inerme?

I regimi arabi

Tipica di ogni dittatura, la tentazione di lanciarsi in avventure belliche per risolvere difficoltà interne crescerebbe se Mosca vincesse la guerra dell’Ucraina, In quel caso i primi a saltare sul carro del vincitore sarebbero regimi arabi che da tempo dubitano della capacità di leadership degli Stati Uniti.

Tra questi ci sono i soci di Putin nella scommessa libica: l’Egitto e gli Emirati. Incalzati dagli occidentali, davanti alla guerra in Ucraina emiratini ed egiziani hanno mantenuto un atteggiamento ambiguo.

Durante l’assemblea generale dell’Onu entrambi hanno votato la mozione che «deplora» l’invasione russa. Ma in precedenza gli emiratini avevano spalleggiato i russi in Consiglio di sicurezza, e gli egiziani mantengono contatti permanenti con Mosca.

Temendo soprattutto il Fondo monetario, il Cairo evita di irritare gli americani. Ma spera che Mosca rimpiazzi gli F-35 che l’amministrazione Biden nega, e confida di ottenere dalla russa Rosatom la tecnologia necessaria alla costruzione il reattore nucleare di Dabaa, costo preventivato 26 miliardi.

Una volta che avesse il nucleare civile, l’Egitto avrebbe la possibilità di dotarsi del nucleare militare in tempo relativamente breve. Ovviamente ignora che se mai ci puntasse contro i suoi missili saremmo in grado di dissuaderlo con un fitto sventolio di bandierine pacifiste e predicozzi sull’immoralità della guerra, di quelli che suscitano applausi scroscianti nel pubblico dei talk show e dunque sono evidentemente irresistibili.

La Siria

In ogni caso è probabile che nel futuro prossimo la storia ci obbligherà a misurarci con rischi finora assenti dal nostro orizzonte. L’Ucraina è molto più vicina di quanto indichi la geografia. È grande due volte l’Italia, 600mila chilometri quadrati contro 300mila. La sua dimensione al momento suggerisce che mai Putin riuscirà a soggiogarla.

Ma anche se questo fosse l’esito, per un tempo forse non breve, sanguinoso e pieno di insidie dovremo affrontare altre crisi. Sarebbe saggio prepararsi, e magari giocare d’anticipo, senza essere sempre costretti a rincorrere gli eventi. Per esempio, converrebbe immaginare una soluzione che liberi la Libia orientale dal generale Haftar e dei suoi lanzichenecchi prima che tutti torni a precipitare nel caos.

Anche la Siria, e non da adesso, è un problema europeo, non fosse altro perché cinque milioni di siriani sparsi tra Turchia ed Europa non potranno rimpatriare finché Assad e i suoi alleati, gli irregolari iraniani e russi, saranno padroni di Damasco. Tutto questo richiede un nuovo pensiero strategico. E magari una serietà che non è nell’antropologia della nostra classe dirigente.

Come dimostrano certi deliri. La russofobia che riduce il conflitto a scontro etnico tra popoli, o peggio, tra la nostra civiltà e i barbari di Mosca. L’ottusità di chi vuol far passare qualsiasi pensiero divergente per intelligenza col nemico (curioso che a criticare Marc Innaro, eccellente corrispondente Rai da Mosca, siano gli stessi che fino a ieri spacciavano per “filo-occidentali” i satrapi arabi oggi pronti ad allearsi con la zar di Mosca).  
 

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