Attendevo impazientemente la nostra conversazione, ma mi ha un po’ depresso una faccenda e vorrei che mi tirasse su il morale (o, nel caso, aggravasse la mia depressione). Negli anni di Trump si è avuto paura di quello che sarebbe potuto succedere. C’era però anche la speranza che se lo avessimo sconfitto decisamente nel 2020 avremmo voltato pagina.

Eppure dopo due anni di amministrazione Biden, il partito repubblicano continua a essere più estremo. Il trumpismo si sta diffondendo all’interno del partito. Persino i suoi rivali fingono di essere dei Trump più intelligenti, più efficaci, o la versione light di Trump. E non sembra che il partito democratico approfitti dello spiraglio strategico per diventare il partito politico dominante. Usciremo mai da questo genere di modalità di combattimento esistenziale?

Questa sensazione, che sia sempre la prossima elezione, che allora finalmente la follia finirà, come una volta Obama descrisse il Tea Party (che ora sembra una specie di docile animaletto rispetto al punto in cui ci troviamo oggi), è probabilmente un’illusione. Molti dei miei amici della parte più liberal dello spettro politico si aspettano che se il candidato sarà Trump, sarà la cosa migliore per Biden, perché Biden sarà sconfitto da qualcuno di più giovane. Ma devo dire che, anche se probabilmente hanno ragione, ho l’impressione di un déjà vu di conversazioni simili nel 2016, quando si diceva: “Ecco, solo che Hillary abbia davvero Trump come avversario ed è fatta!”. E ovviamente sappiamo com’è andata a finire.

Oggi c’è un po’ dello stesso compiacimento, a mio avviso. Parto dalla premessa che nell’America di oggi le elezioni, le elezioni presidenziali, sono eventi al 50-50. Forse 53-47 per un tipo moderato e convenzionale come Biden. A ogni modo, il divario è troppo piccolo per sentirsi lontanamente a proprio agio.

Suppongo che la sua domanda sia per quanto tempo possa durare una situazione in cui si rischia un colpo di coda, se una seconda sconfitta di Trump (e una terza, in termini di voto popolare) porrebbe fine a questa storia nella politica americana. Lo dubito fortemente. Non si tornerà al partito di Jeb Bush. Il punto è se ci saranno candidati più votabili di Trump, e per questo penso che la persona da temere qui sia Glenn Youngkin, che la pensa allo stesso modo in tutto, forse pragmaticamente, forse non in fondo.

Ma a chi importa davvero? Valutiamo quello che le persone dicono in pubblico. Glenn Youngkin la pensa allo stesso modo, ma si presenta come un papà di periferia. Dà sicurezza. Il futuro del partito repubblicano post-Trump è più di questo genere se Trump perde.

Una delle cose che temo è la tendenza a partire da Trump, dire che è una minaccia terribile per le istituzioni di questo paese, cosa che effettivamente penso, e poi in sostanza accampare varie altre ragioni per dire perché una sua alternativa sarebbe altrettanto malvagia: DeSantis è autoritario allo stesso modo ma più votabile, e Youngkin – non l’ho studiato molto da vicino – mi sembra uno che potrebbe non essere d’accordo su questioni politiche importanti e che su queste potrebbe avere importanti divergenze, ma non sarebbe una minaccia alle istituzioni fondamentali della repubblica americana nello stesso modo in cui Trump lo è chiaramente e DeSantis potenzialmente (forse, probabilmente).

Arriveremo al punto in cui non siamo disposti ad accettare nessun candidato repubblicano come legittimo?

Partirei dalla premessa che non rifiutando la teoria delle elezioni rubate nel gennaio 2021, cosa che Glenn Youngkin e Ron DeSantis hanno fatto, allora si dimostra già di essere capaci di mettere in discussione alcune norme basilari della democrazia. Può darsi che si tratti di un espediente che sarà abbandonato e che cercheranno di far dimenticare in un’epoca post-Trump.

Forse è uno standard di riferimento troppo irrealistico da applicare a qualsiasi repubblicano con una qualsiasi ambizione nel partito odierno ancora di Trump. Ad ogni modo lo giudico un segnale piuttosto brutto della direzione che stanno prendendo. Poi c’è la Corte suprema, che ha preso in esame un caso che determinerà la teoria legislativa di uno stato indipendente per dare alle legislature l’autorità, incontrastata dalle corti locali, sostanzialmente di scegliere liste elettorali alternative.

Poi ci sono i tentativi più organizzati, oltre Trump, di manipolare davvero il sistema elettorale. Non sono così sicuro che questo, quello che Tom Edsall chiama l’autoritarismo della minoranza, vada più in profondità di Trump. E penso che lo stesso Trump sia, in certi termini, prigioniero del trumpismo. Ricordo che tentò di vantarsi di quello che doveva essere il suo più grande motivo di vanto, il vaccino, il solo più grande risultato della sua amministrazione (non una lunga lista, lo ammetto, ma un punto molto significativo). Ha semplicemente smesso di parlarne.

C’è stato un momento stupendo, mi sembra appena dopo aver perso l’incarico. Parlava del vaccino in termini positivi a una platea di conservatori ed è stato fischiato.

Lui sa meglio di chiunque altro come misurare la folla, come prenderne la temperatura. Ha registrato la temperatura e da allora non se ne è più vantato. Ora, certamente, come ogni membro della famiglia Murdoch e ogni dirigente e presentatore di Fox News, non ha ricevuto soltanto due dosi di vaccino, bensì tre, forse anche il quarto richiamo.

Ma è significativo che questo singolo risultato – potremmo argomentare in maniera plausibile che un risultato simile sarebbe stato molto più difficile da ottenere con questa rapidità in un’amministrazione democratica - gli è stato rubato. E ci sono altri casi in cui Trump ha in un certo senso semplicemente abbandonato la sua linea. Questo mi fa pensare che la base Maga dipende meno da Trump di quanto potremmo credere.

Nella prima parte delle sue osservazioni, mi sembrava stesse dicendo che potremmo effettivamente arrivare a una sorta di politica post-Trump, ora invece ho l’impressione che pensi che sia piuttosto improbabile. Credo ci siano due parti della storia: il partito repubblicano trumpista che va agli estremi e il partito democratico che è così poco attraente per l’elettorato americano e che, pur avendo vinto sette delle ultime otto elezioni presidenziali in termini di voto popolare e così via, lo ha sempre fatto con un margine piccolissimo. Non siamo proprio in grado di superare questa risicata maggioranza con una di quelle vittorie che costringerebbe il partito repubblicano a tornare a sedersi al tavolo per riformarsi. Se resti fuori dai giochi dappertutto per tanto tempo, alla fine sei costretto a ripensarti. Ma il partito repubblicano non ne ha avuto bisogno.

Se si guarda la storia americana, la storia americana moderna, dove sono i punti in cui il rimprovero dell’elettorato al partito è tale e profondo da cambiare il partito? Si pensi ai repubblicani di Hoover, sconfitti dalla coalizione del New Deal di Roosevelt nel 1932. Si pensi alla sconfitta di Barry Goldwater nel 1964. E poi a come sono finiti McGovern e tutto l’orientamento democratico liberale, contro la guerra, pacifista, che hanno portato a Carter e alla fine, al clintonismo.

Furono sconfitte enormi per gli standard americani. In termini di opinione pubblica, elezioni del tipo 60-40. Ma in termini di collegio elettorale ha coinciso con una vittoria a valanga. Penso che Goldwater abbia vinto il suo stato, l’Arizona, e cinque stati del profondo sud. Dukakis, penso, solo [dieci] stati. Questo tipo di sconfitte nella storia americana portano a grandi riallineamenti ideologici del partito sconfitto. Nel prossimo ciclo elettorale in sostanza non vedo possibile una sconfitta di una portata simile. La società attuale è equamente divisa.

Insisto su questo. Concordo che sia improbabile nel 2024 per come si stanno mettendo le elezioni. Sono certo che avremo un’altra elezione sul filo del rasoio.

Ci sono però alcune considerazioni da fare sulle ragioni per cui è andata così. Una è che ci sono delle forze fondamentali culturali, economiche, forse demografiche che hanno diviso nettamente il paese e niente le farà cambiare. L’altra teoria è che gran parte della popolazione in realtà è ancora in certa misura moderata sia sui temi economici sia culturali, ma nessuno dei due partiti è stato effettivamente in grado di attirarla, in parte perché non sono stati capaci di liberarsi del lato meno attraente della loro coalizione.

Può darsi che qualcuno vinca magari non con una maggioranza del 60 per cento, ma del 56 o 57 per cento e vinca un intero gruppo di stati. È possibile. Non mi sembra probabile però che il meccanismo più ampio delle elezioni primarie, il panorama dei media, il panorama e l’ecosistema dei social media dia a qualcuno il coraggio, la visione e la chiarezza di fare questa cosa. Pensa che ci siano dei fattori strutturali a renderlo impossibile? O che il candidato giusto possa essere in grado di costruire quel tipo di coalizione?

Dipende da che parte si sta la definizione di cosa sia il centrosinistra, ma, in generale, non è rappresentato né da DeSantis né dalle persone che dirigevano il consiglio scolastico di San Francisco, che sono valori anomali.

C’è chiaramente una domanda da parte di quella che alcuni hanno definito “maggioranza esausta”, che tende ad essere moderata. Lì c’è una domanda per una politica che rifletta meglio le loro visioni invece di due partiti che stanno prendendo tangenti così diverse. E quindi, tenderei a pensare che parte di questo sia strutturale. E molte delle condizioni culturali ed economiche che stanno influenzando la politica americana, influenzano anche la politica britannica. Ma in Gran Bretagna i sondaggi mostrano spostamenti massicci: il 61-62 per cento, quasi i due terzi dei britannici vorrebbero rientrare nell’Unione europea.

Se ci fosse stato un modo chiaro per sbarazzarsi di Trump senza la misura straordinaria dell’impeachment, ci sarebbero probabilmente state delle maggioranze in grado di farlo. Quindi forse parte del casino che è l’America al momento risale ai difetti di un sistema semipresidenziale.

Un capo di stato davvero impopolare, o una persona che appare particolarmente minacciosa per le istituzioni del paese, può essere eliminato dalla maggioranza dei parlamentari in diversi tipi di sistemi. Negli Stati Uniti non è così.

No, non lo è. E, francamente, non lo sarà mai. Non succederà mai che tre quarti degli stati e due terzi di ogni camera di Capitol Hill accetteranno una convenzione costituzionale. E se fosse, non si otterrebbe una convenzione costituzionale con consenso su come si dovrebbe governare l’America.

Siamo dunque bloccati con questo sistema molto rigido che non incontra chi si trova in un’area mediana su molte questioni, come ad esempio il controllo sulle armi. Mostra flessibilità a livello locale (la vicenda dell’aborto è davvero molto interessante). Ma siamo bloccati con questo sistema, quindi dobbiamo immaginare una via d’uscita all’interno di questo sistema, più che fare analogie con sistemi diversi. Ho citato l’esempio britannico proprio perché penso che, in termini generali, in media non la si pensi in modo così radicalmente diverso in America e in Gran Bretagna. Ovviamente ci sono realtà diverse e diversi problemi scottanti. Ma nel complesso non penso che la maggior parte degli americani sia estremista.

More in Common fa molte ottime ricerche su questo. E quello che è emerso sull’atteggiamento americano nei confronti del sistema educativo è che la stragrande maggioranza dei conservatori ha detto: “Sì, dovremmo insegnare la storia dell’America parlando della schiavitù e di tutte le cose brutte che sono successe”.

E la stragrande maggioranza dei liberali ha ammesso che c’è una storia complessa che non è solo di oppressione. In sostanza, la pensano come me e te, con sfumature diverse. Diamo ai giovani gli strumenti perché decidano da sé. È qui che le maggioranze che si dicono conservatrici e liberali sono piuttosto vicine l’una all’altra. I loro leader ideologici però non sono nella stessa posizione.

Ho imparato molte cose da questa chiacchierata su quello che sta succedendo negli Stati Uniti. Ma ci sono grandi cambiamenti in corso nel mondo e nel ruolo dell’America nel mondo.

Come vede, in questo momento, lo stato della competizione geopolitica tra Stati Uniti e Cina e la visione dell’America su come questa competizione si svilupperà nei prossimi anni e decenni?

È una domanda molto importante e non passerà. Non si può pensare che la Cina, a differenza dell’Unione sovietica, si dissolva. Non finirà con una sorta di implosione della Cina. Si spera che la Cina come stato nazione, a un certo punto, si democratizzi. Anche allora, però, credo che il testa a testa geopolitico tra l’egemone e lo sfidante in ascesa sarà una questione. Ma non mi aspetto che la Cina si democratizzi. Non è uno scenario plausibile. E dunque questo problema non passerà. In parte è ideologico: la Cina ovviamente è un partito, uno stato comunista e un’autocrazia.

In parte invece è solo strutturale. Ha a che fare con la geopolitica. E la cosa che è stata particolarmente sorprendente di Washington negli ultimi anni è la forza dell’accordo bipartisan su questo tema. Si pensi al Comitato cinese. A Mike Gallagher, il presidente repubblicano e Krishnamoorthi, il leader della minoranza in quel comitato, e non c’è quasi differenza tra loro. Ed è un consenso piuttosto interventista quello che vediamo espresso. L’assenza di una “fazione pacifista” a Washington è particolarmente evidente dal momento che la Business Roundtable e la Camera di Commercio hanno smesso di fare pressioni per maggiori scambi con la Cina.

Erano essenzialmente una forza compensativa perché hanno guadagnato tantissimo dalla Cina, perché la Cina ha contribuito parecchio ai loro profitti. E ora praticamente tacciono, perché, come mi ha detto di recente Hank Paulson, se hai affari in America e anche in Cina, l’area di intersezione in cui puoi dire qualcosa di accettabile per entrambi è così piccola che è meglio tenere la bocca chiusa. Questo significa che quella lobby che faceva da mediatrice è sparita.

Pensa che questa aggressività sia giustificata anche se, forse, la sua versione giustificata è più moderata, più sofisticata? O lei pensa che tutti i falchi abbiano torto?

Xi Jinping è un leader molto più autoritario e autocratico dei suoi predecessori, è in assoluto il più autoritario dai tempi di Mao. Ha cento volte le capacità tecnologiche e la portata militare che Mao abbia mai avuto. E ha detto esplicitamente di voler reincorporare Taiwan, con la forza se necessario, sotto la sua presidenza. E il 2027 è l’anno, con il programma di modernizzazione militare della Cina, in cui all’esercito popolare di liberazione è stato plausibilmente ordinato di poter compiere un assalto anfibio a Taiwan. Quindi no, non è una pensata dei falchi la sfida della Cina al sistema internazionale.

Temo che se continuiamo ulteriormente in questa direzione in cui Stati Uniti e Cina non si parlano (e la Cina sta parlando con tutti gli altri, ovviamente; hanno avuto Macron, Lula, il ministro degli esteri saudita, il ministro degli Esteri iraniano, il presidente della Commissione europea, il ministro degli Esteri tedesco) tutti bussano alla loro porta, mentre la Cina non risponde alle telefonate di Joe Biden. Dobbiamo riaprire un dialogo. Il punto in cui ci troviamo ricorda (e questa è ancora una volta un’analogia piuttosto inquietante che continua a riproporsi) la fase precedente alla crisi dei missili cubani delle relazioni Usa-Urss. Non vogliamo finire in una crisi missilistica cubana prima di aver imparato delle modalità di convivenza, contatto e comunicazione. La Cina non scomparirà. Abbiamo bisogno di una strategia per averci a che fare che non coincida con l’essere continuamente a un passo dalla guerra.

Uno degli inquietanti parallelismi tra la crisi dei missili cubani e il potenziale confronto tra Cina e occidente è l’elemento dell’embargo: la crisi dei missili cubani giunse al culmine quando le navi da guerra americane individuarono un tentativo da parte delle navi sovietiche di portare missili sull’isola di Cuba. Uno degli scenari più realistici, e probabilmente uno degli scenari più intelligenti dal punto di vista di Pechino, su come il PCC cercherebbe di incorporare Taiwan nell’area che governa, sarebbe semplicemente isolare Taiwan economicamente e rendere impossibile per l’isola ottenere forniture energetiche, generi alimentari e altri prodotti chiave di cui necessita.

Come persone che credono nell’importanza e nel valore della democrazia liberale, come dobbiamo muoverci?

Abbiamo fatto fatica a istituire la democrazia in piccoli paesi dove abbiamo speso miliardi di dollari e che abbiamo occupato, come l’Afghanistan. Dobbiamo essere realistici su ciò che vogliamo ottenere o su cui vogliamo esercitare influenza in Cina. In certa misura, più la situazione di stallo diventa tesa e più questa pace diventa armata, più è probabile che si rafforzi la repressione e la linea dura all’interno della Cina.

Dobbiamo essere modesti sulla misura in cui possiamo effettivamente influenzare gli sviluppi politici interni cinesi. Al contempo dobbiamo essere risoluti nel rafforzare le capacità di porre dazi dei vicini della Cina e nel limitare la capacità della Cina di farlo, attraverso il software di sorveglianza tecnologica che esporta, e dobbiamo fornire delle alternative. Questo però comporta la costruzione di una leadership americana molto più schierata a favore di una cultura digitale mondiale aperta; a guida del dibattito sul controllo dell’intelligenza artificiale; di un maggiore impegno economico nelle aree d’avanguardia dell’economia, più di quanto l’amministrazione Biden (o metà del Partito repubblicano, a quanto pare ad oggi) sia disposta a fare. Durante la guerra fredda avevamo un’America che era, per dirla in maniera rozza e caricaturale, un’America del “si può fare”. Molto pragmatica.

La versione integrale di questa conversazione è stata pubblicata sulla testata online Persuasion. Ed Luce è editorialista del Financial Times

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