L’Iran sta portando avanti la più grande ondata di esecuzioni degli ultimi decenni. In un solo giorno, sabato 4 ottobre, sono stati giustiziati sette uomini, di cui sei accusati di aver operato per Israele conducendo attacchi armati nel sud-ovest del paese.

Le esecuzioni sono avvenute a meno di una settimana dall’impiccagione di Bahman Choobiasl, definito dalle autorità iraniane «una delle spie più importanti di Israele in Iran».

L’accusa era di aver incontrato funzionari dell’intelligence israeliana, il Mossad, per riferire sulle «modalità di importazione di dispositivi elettronici» sulla base del lavoro che svolgeva a «progetti di telecomunicazioni sensibili».

Choobiasl è l’undicesima persona giustiziata quest’anno dall’Iran con l’accusa di spionaggio per conto di Israele. Esecuzioni frutto di processi irregolari e confessioni estorte con torture e maltrattamenti, che hanno subito una critica accelerata dopo la guerra di giugno con lo stato ebraico, conseguenza di quanto accaduto il 7 ottobre del 2023.

Uno scambio di attacchi durato dodici giorni durante il quale Tel Aviv ha bombardato siti nucleari e missilistici della Repubblica islamica, eliminando scienziati e figure di alto profilo del comando iraniano. Omicidi che, secondo Teheran, sono stati compiuti grazie alle informazioni fornite a Israele in quella che viene descritta come un’infiltrazione senza precedenti nei servizi di sicurezza iraniani da parte degli agenti del Mossad.

Caccia all’uomo

Dal 13 giugno, giorno dello scoppio del conflitto, il paese, che è stato indicato come il principale sostenitore dell’attacco compiuto da Hamas due anni fa, ha infatti scatenato una feroce caccia all’uomo che ha portato all’arresto di centinaia di persone per spionaggio. Il tutto a un ritmo che non si registrava dal 1988, quando l’Iran aveva giustiziato migliaia di persone dopo la guerra con l’Iraq.

Come riporta la Bbc, il ministero dell’Intelligence iraniano ha dichiarato di essere impegnato in una «battaglia incessante» contro reti di intelligence occidentali e israeliane – tra cui la Cia, il Mossad e l’MI6 – per difendere la sicurezza nazionale. Il timore, invece, è che l’intensificazione del ricorso alla pena di morte sia funzionale, anche e soprattutto, a sopprimere il dissenso e rafforzare il controllo sulla popolazione.

In ogni caso, la repressione in atto si inserisce in un clima più ampio di misure volte a contenere la crescente intolleranza popolare. Negli ultimi anni si sono moltiplicate le proteste nazionali a partire dal brutale omicidio di Masha Amini, una studentessa di ventidue anni di origine sunnita e curda, aggredita e uccisa dalla polizia morale perché non indossava correttamente il velo.

Da quel 16 settembre 2022, decine di manifestazioni hanno preso piede in tutto il paese per denunciare le politiche repressive della teocrazia iraniana che da quarant’anni soffoca la voce delle donne e delle minoranze. Il governo, di tutta risposta, ha aumentato gli arresti, le sentenze e le esecuzioni arbitrarie. Attuando in alcuni casi anche politiche più subdole come l’intossicazione di migliaia di studentesse iraniane mentre erano a scuola.

Clima di terrore

Solo nel 2025, Amnesty International ha registrato l’esecuzione di oltre mille persone in Iran, il numero annuale più alto degli ultimi 15 anni. Coloro che vengono presi di mira sono principalmente dissidenti politici, membri di minoranze etniche, donne e manifestanti. Oltre a persone accusate di reati legati alla droga che, secondo l’Iran Human Rights, quest’anno rappresentano il 50 per cento dei giustiziati. Un dato spaventoso se si considera che il diritto internazionale limita la pena capitale ai crimini «più gravi», di cui chiaramente i reati legati alla droga non fanno parte.

Molte delle esecuzioni confermate dai tribunali sono giustificate da accuse di matrice politica, spesso non dimostrate. E i tribunali rivoluzionari, che si occupano della giurisdizione sulla sicurezza nazionale, conducono processi gravemente iniqui.

A fine agosto, per esempio, nonostante le numerose irregolarità, la Sezione 39 della Corte suprema iraniana ha confermato la condanna a morte dell’attivista curda per i diritti delle donne e dei lavoratori, Sharifeh Mohammadi, accusata senza prove di militare con il gruppo armato Komala.

La comunità curda, in particolare, è tra le più colpite dalla pena di morte insieme a quella afghana e baluchi. Una prassi consolidata per reprimere e tenere sotto schiaffo le minoranze etniche nella regione. Dal 2023 al 2024, il numero di afghani giustiziati dai tribunali iraniani è passato da 25 a 80. Una tendenza che si conferma anche quest’anno e che cresce di pari passo con la sistemica diffusione di una retorica razzista e xenofoba tra le autorità iraniane.

La Repubblica islamica si classifica come il secondo paese al mondo per numero di esecuzioni capitali. Una pratica che mira alla preservazione di un clima di terrore politico e sociale funzionale all’imposizione del silenzio e alla sottomissione delle minoranze nella totale impunità internazionale.

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