Non c’è alcun riferimento esplicito alla crisi nel mar Rosso nei rispettivi comunicati con cui Wang Yi e Jake Sullivan hanno concluso il loro incontro a Bangkok dello scorso fine settimana. Come se il ministro degli Esteri cinese e il consigliere per la Sicurezza nazionale degli Stati Uniti non ne avessero discusso.

Nel resoconto Usa si anticipa però una «telefonata tra il presidente Biden e il presidente Xi», attesa nelle prossime settimane. Così, mentre Washington ha mosso una coalizione ad hoc per fermare gli attacchi delle milizie houthi, l’apparente riluttanza di Pechino a sporcarsi le mani in un’area nella quale pure ha interessi crescenti evidenzia secondo molti studiosi i limiti della diplomazia cinese.

Fin quando non sarà in grado di contribuire alla soluzione di simili tensioni internazionali – è la loro conclusione – la Cina non diventerà una potenza globale.

Mutatis mutandis, dopo l’invasione dell’Ucraina ordinata da Vladimir Putin, Pechino non ha condannato nemmeno gli attacchi degli ultimi due mesi dei combattenti sciiti contro decine di navi da carico occidentali nel Mar rosso meridionale e nel Golfo di Aden.

Il fatto è che la Cina deve bilanciare la difesa dei suoi interessi commerciali con la sua aspirazione a “rappresentare” il Sud globale che, come i filoiraniani Houthi, chiede la fine della guerra mossa da Israele contro la Striscia di Gaza. Secondo l’amministrazione di Xi Jinping infatti, la crisi nel mar Rosso è una conseguenza diretta di quella di Gaza e rischia d’incendiare l’intero Medio Oriente.

Partner mediorientali

Mentre i social media cinesi sono inondati di video sulle sofferenze dei civili palestinesi e sulle azioni di guerriglia di Hamas, Wu Sike ha spiegato così la prudenza di Pechino.

L’ex inviato speciale in Medio Oriente ha sostenuto durante un dibattito all’Università Renmin che la Cina deve «promuovere il processo di pace in Medio Oriente», anche perché la regione «dove abbiamo partner strategici per la nostra ascesa può offrire sostegno alla Cina nella competizione tra grandi potenze», ovvero con gli Stati Uniti.

Dall’area arriva in Cina la maggior parte delle sue importazioni di greggio (11,28 milioni di barili al giorno nel 2023, +11 per cento rispetto all’anno precedente), e paesi come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sono diventati importanti acquirenti di tecnologia cinese (soprattutto per la produzione di rinnovabili e per le telecomunicazioni) sulla rotta della nuova Via della Seta.

Anche per questo la Cina, che pure contribuisce da oltre 15 anni alle missioni multinazionali anti pirateria, non può schierarsi con Israele e con gli Usa. Attraverso il canale di Suez passa il 20 per cento del traffico globale di container, monopolizzato da grandi compagnie come la cinese Cosco.

Gli attacchi degli Houthi hanno costretto le navi cargo a raggiungere l’Europa passando per il capo di Buona Speranza e circumnavigando l’Africa, con un prolungamento del viaggio di due settimane e relativo aumento dei costi, una situazione insostenibile a lungo per il commercio internazionale.

L’instabilità nell’area colpisce in maniera particolare la Cina che, con l’ascesa al potere nel 2014 del generale Abdel Fattah al Sisi, ha investito massicciamente nelle infrastrutture egiziane della logistica, energetiche e dei trasporti.

La scorsa primavera il colosso di stato Cosco e la compagnia hongkonghese Hutchinson Holdings hanno annunciato investimenti per oltre 700 milioni di dollari nei porti di Sukhna e Alessandria, assumendo il controllo di due terminal container strategici per il commercio tra Asia, Africa ed Europa.

A Sukhna negli ultimi mesi le compagnie di stato cinesi hanno inoltre finanziato con una quindicina di miliardi di dollari la costruzione di stabilimenti produttivi siderurgici e chimici.

Il canale di Suez

L’Egitto di al Sisi è per la Cina di Xi Jinping un partner fondamentale sia per rafforzare il forum dei paesi Brics (nei quali è stato ammesso l’estate scorsa), sia per i collegamenti della nuova Via della Seta.

Anche se i missili e i droni degli Houthi non prendono di mira i mercantili cinesi, Pechino ha tutto l’interesse a bloccare un’escalation che ha provocato anche l’aumento del prezzo del petrolio.

All’esercitazione militare navale congiunta Iran-Cina-Russia sbandierata ieri da Teheran e che dovrebbe svolgersi entro la fine di marzo Pechino non ha dato alcun risalto, per non aumentare la tensione.

La settimana scorsa il viceministro degli esteri, Deng Li, ha incontrato a Pechino il suo omologo, Mansour Ali Saeed Bajash, manifestando il sostegno della Cina al governo legittimo, alla sovranità e all’integrità territoriale dello Yemen.

E soprattutto – ha rivelato la Reuters – il governo cinese avrebbe invitato Teheran a frenare gli attacchi degli Houthi, lasciando intendere che altrimenti potrebbero esserci ripercussioni sul commercio bilaterale (l’Iran esporta in Cina il 90 per cento del suo greggio, sotto sanzioni internazionali).

Le pressioni cinesi devono tuttavia fare i conti con l’Iran – assurta al rango di potenza regionale dopo l’invasione Usa dell’Iraq del 2003 e la rimozione di Saddam Hussein – e con la sua rete di proxy regionali, che hanno nella lotta contro Israele la loro ragion d’essere.

Dare il proprio contributo per frenare gli assalti degli Houthi – come le è stato richiesto ufficialmente da Washington – è per la Cina doppiamente importante in una fase in cui, dopo il vertice tra Xi e Joe Biden del 15 novembre scorso, sta provando a far ripartire il dialogo con gli Stati Uniti.

Dopo aver favorito la storica stretta di mano tra sauditi e iraniani a Pechino del marzo 2023, Wang aveva annunciato che la Cina avrebbe svolto un ruolo pacificatore in altri hotspot mediorientali.

L’attacco di Hamas del 7 ottobre e la risposta israeliana hanno rimesso tutto in discussione. Pechino proverà con la sua diplomazia, senza schierarsi con nessuna delle parti in conflitto, a dimostrare di non essere soltanto una superpotenza commerciale, ma di poter favorire anche la risoluzione di crisi come quella del mar Rosso.

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