Nelle ultime due settimane la strategia di guerra di Valdimir Putin sembra aver subito importanti battute d’arresto.

Anzitutto, la più incisiva, il recupero ucraino di una parte di territorio, che, come ha ben spiegato Mario Giro su queste pagine, è difficile ridurre a «piccolo fazzoletto di terra». Sia per la sua estensione territoriale, più di 8mila chilometri quadrati), sia per la sua importanza strategica, con la riconquista di città decisive per la logistica russa.

In secondo luogo, l’accoglienza assai tiepida ricevuta al «vertice dell’altro mondo» di Samarcanda, dove Cina e India hanno fatto capire di essere assai più interessate alla stabilità dell’area asiatica, piuttosto che alla riconquista russa di un’antica area geopolitica. Già chiari segnali erano arrivati in questo senso, non ultima la recente visita in Kazakistan di Xi Jinping, la prima in un paese estero dopo le autoimposte restrizioni dovute alla pandemia. Il tentativo putiniano di scaricare la responsabilità di una mancata trattativa sull’Ucraina, in totale contrasto con quanto visto sul campo in questi mesi, va ovviamente letto come mossa per sfuggire all’isolamento.

Un confine sempre più profondo

Russian President Vladimir Putin, left, gestures while speaking to Chinese President Xi Jinping during the Shanghai Cooperation Organization (SCO) summit in Samarkand, Uzbekistan, Friday, Sept. 16, 2022. (Sergei Bobylev, Sputnik, Kremlin Pool Photo via AP)

Terzo elemento a sfavore della Russia, la ripresa del conflitto da parte dell’Azerbaigian, che si sta estendendo rispetto alla regione contesa del Nagorno-Karabakh, mirando direttamente sull’Armenia, con ogni probabilità approfittando dell’impossibilità di intervento del protettore russo. Elemento che pone il paese di Putin in una posizione di debolezza nell’ambiguo rapporto con la Turchia, notoriamente schierata con la causa azera.

Ultimo colpo subito, ma non per importanza, il voto del parlamento europeo contro l’Ungheria di Viktor Orbán, esplicitamente, e finalmente direbbero alcuni, accusata di involuzione democratica. Considerato il ruolo di vero e proprio cavallo di Troia della Russia assunto dal paese in questi mesi, un atto che segna un argine rispetto al tentativo di penetrazione negli equilibri europei. Del voto si possono mettere in risalto le contraddizioni interne all’Ue, che ha contemporaneamente allentato la presa sulla Polonia, dove avvengono altrettanto gravi violazioni del diritto. Oppure, con più realismo politico, se ne può sottolineare il valore tattico anti russo. Tutti passaggi che approfondiscono la linea di demarcazione tracciata il 24 febbraio dall’invasione voluta da Putin.

O di qua o di là

Hungary's Prime Minister Viktor Orban listens to Serbian President Aleksandar Vucic during their talks in Belgrade, Serbia, Friday, Sept. 16, 2022. Orban is on a one day working visit to Serbia. (AP Photo/Darko Vojinovic)

In questo quadro, ormai alla vigilia di elezioni importanti per tutto il continente come quelle italiane, non può non risaltare il voto contrario alla condanna di Orbán di Fratelli d’Italia e Lega, candidati a guidare il paese nei prossimi anni. A nulla servono le puerili giustificazioni del diritto di Orbán a governare in quanto «ha vinto le elezioni», come se questo garantisse della democraticità di un sistema politico. Una linea così netta come quella che l’occidente sta tracciando non ammette elementi di ambiguità: o si sta di qua o si sta di là, come dall’America stanno facendo capire in ogni modo. Non basta usare toni rassicuranti.

Non basta inviare in esplorazione esponenti del proprio partito (vedi viaggio negli Stati Uniti di Adolfo Urso). Non basta andare a cena con la propria figliola dal padre gay e single di una bambina down. Ciò che si chiede è di recidere i legami con quella base elettorale accarezzata in questi anni per puri fini elettorali, che ha assunto il leader russo come «difensore della civiltà cristiana» e modello ispiratore per ogni posizione conservatrice. Senza una vera e propria elaborazione culturale che ridefinisca i confini della destra europea, separandoli nettamente da ogni pulsione illiberale è impossibile riparare un governo da pressioni esterne, finanziarie o geopolitiche che siano.

L’immagine di un paese in rotta con la propria area politico-culturale, è cosa nota, non piace ai mercati. Tanto più se già fragile di suo a causa di un debito pubblico monstre. Così come non sono gradite oltre oceano le strizzatine d’occhio verso oriente, tanto da mettere oggi in discussione la stessa appartenenza all’area atlantica dell’Ungheria, finora abilissima a speculare sulla propria posizione geopolitica. Meglio, si è pensato in questi anni, un’Ungheria illiberale di qua, piuttosto che estendere i confini russi verso le grandi capitali dell’Europa occidentale. Aggiungiamo che il posizionamento di Forza Italia, costretta a ritagliarsi un ruolo di partito moderato per guadagnare qualche quota elettorale, non rassicura sulla stabilità di una coalizione che si appresta, con ogni probabilità, a vincere le prossime elezioni.

© Riproduzione riservata