Questo è un nuovo numero di Afriche, la newsletter decolonizzata di Domani che racconta l’Africa al plurale, a cura di Luca Attanasio e in arrivo ogni martedì pomeriggio. 

Lettrici e lettori di Afriche, ciao a voi. In questo nuovo numero, un articolo sul recente rapporto del Consiglio norvegese per i rifugiati evidenzia che le dieci crisi di profughi più neglette al mondo, sono in Africa. Una nuova testimonianza, se ce ne fosse ancora bisogno, di come il pianeta si disinteressi, se non per sfruttarlo, del continente. A seguire un contributo di Lorenzo Barraco, un giovane studioso di Global South, che segnala come il panafricanismo stia tornando di moda. Prima delle consuete news dal continente una recensione di un libro sul cardinal di Bangui, in Repubblica Centrafricana, il più giovane al mondo, noto per la sua opera di pace e dialogo in un paese dilaniato dal conflitto. Buona lettura.

L’Africa sempre più negletta

Secondo l’autorevole report annuale del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc), le dieci crisi di profughi più neglette  sono – per la prima volta – tutte in Africa. Il dato è doppiamente allarmante, da un lato infatti evidenzia l’allargamento delle crisi umanitarie nel continente, dall’altra denuncia il pressoché totale disinteresse del mondo a contenerle. 

Il Nrc pubblica ogni anno una lista delle dieci crisi più dimenticate dalla comunità internazionale tenendo conto di tre criteri: la carenza di copertura mediatica, la mancanza di volontà politica a trovare soluzioni e, conseguenza ovvia, la penuria di finanziamenti per le emergenze. I paesi con le crisi più trascurate secondo il Nrc sono, nell’ordine: Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia.

Sebbene lontano migliaia di chilometri, il conflitto ucraino arriva a far sentire i propri effetti mefitici anche in Africa. Alla cronica indifferenza verso il “continente nero”, infatti, si aggiunge lo spostamento massiccio di interesse del mondo occidentale verso la guerra che si combatte nell’est europeo. «Diversi paesi donatori», sostiene il segretario generale di Nrc Jan Egeland «stanno decidendo di ridurre gli aiuti all’Africa per reindirizzare i fondi all’accoglienza di ucraini».  

Lo studio riporta ancora una volta come attuale la questione del’europocentricità e del vuoto di informazione nel vecchio continente – particolarmente in Italia – attorno all’Africa e l’elevato tasso di retoriche fuorvianti. Nei primi tre mesi di guerra in Ucraina, sottolinea il Nrc riprendendo Meltwater, sono stati scritti in media 85mila articoli al giorno in inglese sulla crisi. In tutto il 2021, invece, solo per citare un esempio, gli articoli in inglese sulla questione degli sfollati in Burkina Faso, sono stati in totale 27mila. In Italia, il dato scende a livelli irrisori.

Se pensiamo al rapporto che lega l’Europa all’Africa, lo vediamo ancora pieno zeppo di stereotipi e pensiero colonialista. La scarsa presenza nei nostri media nel continente africano, così come il sostanziale disinteresse per le sue sorti, e la deuropizzazione in atto, sono anche il frutto di narrazioni devianti. Un caso clamoroso è la retorica delle migrazioni: l’Europa crede di essere cinta d’assedio da una massa informe di profughi africani che stanno per invaderci. La percezione, del tutto erronea, è da decenni alla base di strategie politiche che stanno rendendo il vecchio continente sempre più simile a una fortezza inaccessibile.

La prova più fisica e lampante di questo discorso sono i 1.000 km di sbarramenti illegali eretti all’interno dell’Ue, in alcuni casi anche in area Schengen, tutti in funzione antimigrante, dalla caduta del muro di Berlino a oggi: una muraglia sei volte più lunga di quella costruita nel 1961, che si snoda per tutto il continente. A completare l’opera di sterilizzazione europea, ci sono gli accordi dell’Italia con la Libia per contenere e intercettare i barconi di migranti che, dopo mesi o anni di concentrazione nei lager, tentano il disperato arrocco all’Europa, quelli della Ue con la Turchia che “accoglie” 3,7 milioni di migranti provenienti da oriente in cambio di sei miliardi di euro e le strategie di controllo di Frontex, la polizia di frontiera europea, alla ribalta della cronaca per possibili abusi.

L’80 per cento degli sfollati interni sono africani che restano in Africa

Il risultato raggiunto riguardo al numero decisamente ridotto di ingressi di migranti forzati in Ue – 200mila nel 2021 (dati Frontex), di cui circa 50mila in Italia – è considerato da molti un successo. In realtà è il frutto di una politica che prima che dall’umanità, è lontana dalla realtà.

Come evidenziano centinaia di rapporti sul campo, ultimo in ordine di tempo quello di Nrc, la stragrande maggioranza dei profughi africani non pensa neanche lontanamente all’Europa come meta, ma a salvarsi la vita approdando in un luogo appena più sicuro del  proprio, nel più breve e meno dispendioso metodo possibile.

Dei circa 60 milioni di sfollati interni registrati nel 2021 nel mondo, secondo l’Internal Displacement Monitoring Centre, l’80 per cento sono africani che restano in Africa. Molti di quelli che sconfinano, vanno in paesi limitrofi.

Oltre all’aiuto diretto, quindi, un fondamentale passo per cominciare ad affrontare in modo serio le tante crisi dimenticate nel mondo sarebbe quello di immaginare un’accoglienza di parte dei profughi legale e organizzata. Non è impossibile né difficile, e la risposta ammirevole dell’Ue nel caso della guerra in Ucraina e il decreto del 4 marzo di attuazione alla direttiva sulla protezione temporanea agli sfollati (almeno un anno estendibile a tre, ndr) firmato in poche ore all’unanimità sono lì a testimoniarcelo.

«La guerra in Ucraina», riprende Egeland, «ha dimostrato l’immenso divario tra ciò che è possibile fare quando la comunità internazionale si unisce e la realtà quotidiana di milioni di persone che soffrono in silenzio nel continente africano, che il mondo ha scelto di ignorare».

Gli Stati Uniti d’Africa tra governi e società civile: Nkrumah torna attuale

(contributo di Lorenzo Barraco, studioso di Africa sub-sahariana e Global South)

Lo scorso 25 maggio si è celebrato l’Africa Day, l’anniversario della nascita dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA), avvenuta nel 1963. Il think tank Timbuktu Institute ha dedicato l’intera settimana al tema del panafricanismo e il suo direttore, Bakary Sambe, ha sottolineato come la società civile africana sembri percepire maggiormente l’esigenza di una unità panafricana rispetto ai leader politici.

L’intervista al direttore è apparsa sulla piattaforma AfricTivistes, un blog di giovani attivisti digitali che promuovono la democrazia nel continente con un approccio panafricanista. Nonostante gli innumerevoli ostacoli che si frappongono tra gli attori in gioco, anche le élite politiche africane sembrano tuttavia aver intravisto nel panafricanismo il giusto motore per portare avanti le ambiziose aspirazioni dell’Agenda 2063, adottata ufficialmente dall’Unione Africana (UA) nel 2015.

Fonte di ispirazione di questo documento, nonché delle giovani generazioni di attivisti panafricanisti, è la figura di Kwame Nkrumah, primo presidente del Ghana indipendente. Nel 1963 Nkrumah pubblicò un breve saggio dal titolo Africa must unite, nel quale enunciava i princìpi alla base di quelli che sarebbero dovuti diventare gli Stati Uniti d’Africa. Questa nuova entità sovranazionale, fondata sull’unione politica ed economica del continente, avrebbe permesso all’Africa di svincolarsi dai paradigmi eurocentrici, sconvolgendo i confini di derivazione coloniale e superando la balcanizzazione imposta al continente. Così facendo, l’Africa si sarebbe posta nel panorama internazionale forte della sua personalità decolonizzata, grazie a una riesumazione dei valori tradizionali brutalmente sfregiati dal colonialismo. Solo la realizzazione degli Stati Uniti d’Africa avrebbe potuto permettere una reale indipendenza economica e culturale ed eliminato totalmente le insidie del neocolonialismo.

La visionaria prospettiva di Nkrumah non ottenne all’epoca il consenso sperato, ma il suo progetto resta ad oggi di grande rilevanza. Non è un caso, infatti, che l’Agenda 2063 si prefiguri anche la realizzazione di una confederazione di stati e di un passaporto comune a tutti gli africani. La fragilità in cui versa oggi l’UA sembra d’altronde dimostrare l’esigenza di un’integrazione più coordinata e radicale, così da fornire all’organizzazione gli strumenti idonei ad affrontare le complesse sfide che il nostro secolo riserva al continente.

Lo “nkrumaismo” rappresenta ancora oggi un motore che può alimentare una completa decolonizzazione, implementando soluzioni vicine alle reali esigenze dei popoli africani. Secoli di dominazione straniera non possono essere cancellati in un sessantennio, ma tentare di comprendere sfide e soluzioni afrocentriche – come il panafricanismo di Nkrumah – risulta fondamentale, anche per un osservatore  europeo, per cominciare a guadare all’Africa con occhi nuovi e decolonizzati.

La mia lotta per la pace. Centrafrica, un cardinale per il dialogo

Dieudonné Nzapalainga, arcivescovo di Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, classe 1967, è il cardinale più giovane al mondo. Ma la fama, più che dall’anagrafica, gli deriva dall’impegno speso per la pace nel suo paese tormentato da una guerra sanguinosa, e dalla lotta per il dialogo avviato tra varie fedi al fine di ristabilire la calma e smentire chi soffia sull’odio etnico e religioso.

Nel dicembre 2013, all’apice del conflitto, quando le milizie anti-Balaka lanciarono una spaventosa campagna militare contro i musulmani, il cardinal Nzapalainga accolse nella sua residenza l’Imam Omar Layama, presidente della Central African Islamic Community, e la sua famiglia. Ergendosi a modello di convivenza e amicizia al di là delle differenze, il porporato e il leader islamico lanciarono un messaggio al proprio paese e al mondo intero dilaniato da conflitti legati a religioni e culture, e si guadagnarono il significativo titolo di “gemelli di Dio”.

Mentre i villaggi vengono saccheggiati, esplodono rivalse e si perpetuano stragi, Nzapalainga inizia, insieme all’imam e al presidente dell’Alleanza evangelica, a percorrere il paese per scongiurare la gente a non farsi vendetta, per difendere gli inermi dai violenti e bandire la guerra. Invitando tutti, con la parola e l’esempio, a non tirare in ballo la religione per giustificare la malvagità dell’odio. Più volte minacciato di morte, rimasto al proprio posto quando avrebbe potuto fuggire, il cardinale di Bangui, assieme a leader religiosi e società civile, sta scrivendo una nuova pagina di Vangelo dimostrando che la fraternità universale non è un diversivo per anime belle.

News dal continente:

  • In Nigeria

Drammatico attentato domenica 5 giugno nella chiesa cattolica di San Francesco, stato di Ondo, nel sud-ovest del paese. Alcuni uomini armati hanno aperto il fuoco sui fedeli nel corso della messa causando decine di morti, tra cui bambini, e molti feriti. Alcuni astanti, tra cui  il sacerdote che presiedeva, sono stati rapiti. Secondo i primi drammatici conteggi, i morti sarebbero almeno 50 ma c’è chi parla di cifre più alte. Appena la notizia è stata battuta, il pensiero è andato alle famigerate milizie di Boko Haram o dell’Iswap (Islamic State West Africa Province). In realtà, non sembrano esserci elementi che colleghino l’atto alla matrice islamica né al conflitto tra i fulani (pastori semi-nomadi, in gran parte musulmani) e agricoltori (di maggioranza cristiana). L’attentato, il peggiore della storia recente, resta quindi avvolto al momento nel mistero e getta il grande paese africano, sospeso tra sviluppo ed enormi problemi di sicurezza e povertà, nello sconcerto generale.

  • In Mali, Guinea e Burkina Faso

I capi di stato del blocco regionale di 15 nazioni, noto come Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale (Ecowas), hanno per il momento congelato ulteriori sanzioni contro i governi golpisti di Mali, Guinea e Burkina Faso, i cui leader continuano a insistere sul fatto che ci vorranno anni prima che si possano tenere nuove elezioni (precondizione richiesta dall’Ecowas per ristabilire i contatti con i tre stati attualmente sospesi dall’Ua e allentare le durissime sanzioni). L’incontro di sabato 4 giugno ha segnato l’ultimo tentativo del blocco regionale di fare pressione sui leader militari dei tre paesi africani per ripristinare l’ordine costituzionale e indire elezioni democratiche. Il 3 luglio, nuova riunione per discutere se accettare proroghe o insistere sulle sanzioni e sull’isolamento, condizioni che aggraverebbero una situazione umanitaria già al collasso, oltre che per la sicurezza, per l’impatto della pessima stagione delle piogge e della guerra russo-ucraina.

  • In Repubblica Democratica del Congo/Belgio

Il re Filippo del Belgio ha iniziato oggi martedì 7 giugno una storica visita nella Repubblica Democratica del Congo, in quella regione crudelmente sfruttata dai suoi antenati, mentre le tensioni, uno dei tanti lasciti avvelenati dalla monarchia belga, aggravato da sfruttamenti e neocolonialismi, aumentano specie nelle regioni del Kivu e dell’Ituri, a est del paese.

Il viaggio di sei giorni, su invito del presidente Felix Tshisekedi, ha un forte significato simbolico, in quanto arriva due anni dopo che il re aveva espresso al leader congolese il suo «profondo rammarico» per le «ferite» della colonizzazione. La visita, la prima del monarca da quando è salito al trono nel 2013, è stata annunciata come un’occasione di riconciliazione dopo le atrocità e gli abusi commessi sotto il dominio coloniale belga. Si calcola che in quello che era stato nominato Congo belga, milioni di persone siano state brutalmente uccise, mutilate o siano morte di malattia mentre lavoravano nelle piantagioni di caucciù di Leopoldo II, monarca del Belgio dal 1865 al 1909, fratello del bisnonno di Filippo e noto per essere stato uno dei più crudeli esponenti dell’Europa colonialista, criticato addirittura da altre potenze come Inghilterra o Francia proprio per la sua spietatezza.

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