Sfrecciando nella notte lungo viale Ruhollah Khomeini, che dall’aeroporto porta nel cuore della capitale Beirut attraversando la roccaforte sciita di Dahieh, senza elettricità i lampioni lasciano la strada al buio. I murales del gran generale iraniano Qasem Soleimani, ucciso dagli Usa, rimangono nascosti nell’ombra. Ogni venti metri c’è una gigantografia del leader di Hezbollah Hassan Nasrallah, una presenza molto più martellante che in tempi normali: domenica in Libano è tempo di elezioni.

Oltrepassando i bivi per i campi profughi di Bourj el-Barajneh e di Chatila, luogo di uno dei peggiori massacri della guerra civile esattamente 40 anni fa, torna in mente la minoranza che, un po’ per scelta e un po’ per discriminazione, dopo tre quarti di secolo in questo paese ancora una volta non parteciperà al voto: centinaia di migliaia di palestinesi.

Poi lambendo il quartiere armeno di Bourj Hammoud si entra ad Achrafieh, il bastione cristiano della capitale: sui muri le scritte in stampatello: “Iran out”, fuori l’Iran, l’appello di chi vorrebbe allinearsi al campo occidentale. A “Rue D’Armenie” un benzinaio rimasto accartocciato dopo l’esplosione del porto, che fece oltre 200 morti e danni incalcolabili con lo scoppio di 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio il 4 agosto 2020, quasi due anni più tardi rimane in rovina.

Sfiducia generalizzata

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Tanti dei libanesi che si preparano a intingere il dito nell’inchiostro dopo il voto – una delle misure anti frode in campo, sono dispiegati anche decine di osservatori dell’Unione europea e proibite le motociclette considerate mezzo preferito degli intimidatori – vivono le elezioni senza grandi aspettative.

Sull’onda delle proteste dell’ottobre 2019, quando la piazza si ribellò contro l’eterna oligarchia dei leader dei gruppi confessionali, e nel pieno della crisi economica più profonda nella storia del paese, qualcuno sperava nell’emergere di una realtà politica che rappresentasse il movimento anti sistema.

«Non cambierà molto dopo il voto, noi libanesi siamo troppo pigri», dice però Georges Haddad, attivista del partito alternativo Cittadini e cittadine in uno stato, durante un evento nell’albergo Serenade del quartiere di Hamra a Beirut.

Haddad produce lampade al neon alla moda con la scritta “thaura” (rivolta) ma il suo atelier è stato distrutto dall’esplosione del porto, un evento a cui ora dedica un pezzo speciale. «Almeno noi proponiamo qualcosa per il lungo termine, come il superamento del sistema confessionale», dice.

In Libano ogni distretto ha un numero di seggi pre assegnati su base comunitaria: può capitare che un musulmano sunnita con poche centinaia di voti passi davanti a un cristiano maronita che ne ha migliaia, semplicemente perché in quella circoscrizione il terzo o quarto seggio disponibile deve essere per forza sunnita.

Ma per prima cosa c’è uno spareggio fra diverse liste e il fatto che quelle “del cambiamento” si siano presentate in modo frammentario, diminuisce le chances di avere nuovi volti fra i deputati. Rimane il vecchio scontro fra i pro Hezbollah – la cosiddetta coalizione dell’8 marzo – e il campo del 14 marzo, orfano del leader sunnita Saad Hariri.

Il dibattito su Hezbollah

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Malgrado le rigidità sistemiche riducano le chances di grandi cambiamenti, alla vigilia delle elezioni è infuriato il dibattito su Hezbollah, il partito sciita dotato di un potente braccio militare.

Gli antagonisti si sono espressi a favore dello smantellamento del suo esercito parallelo, che vivono come un affronto alla sovranità nazionale. Ma si tratta di una diatriba perlopiù retorica: nessuno crede davvero Nasrallah possa compiere passi in questa direzione, tanto più che conta su un arsenale molto più rifornito di quello dello stesso esercito nazionale.

«Le armi rappresentano qualcosa di molto più importante, è un confronto sul colore di questo paese e sulla sua collocazione nella regione», dice Heiko Wimmen, analista tedesco di stanza a Beirut per il think tank International Crisis Group (Icg).

«Vogliamo davvero fare parte del campo iraniano insieme alla Siria, in conflitto perenne con Stati Uniti, Golfo, Israele, pagando il prezzo che questo comporta?», chiede seduto nel popolare bar Kale a Ras Beirut. Per Wimmen il dibattito è anche funzionale a creare un’atmosfera di pericolo, mobilitando i gruppi confessionali e sviando l’attenzione dallo sfacelo economico causato dai leader.

Un possibile nuovo tracollo

La notizia dello scorso mese di una disponibilità di massima del Fondo monetario internazionale a sborsare tre miliardi di dollari per provare a traghettare il Libano oltre la sua grave crisi economica non basta a provocare ottimismo.

Nella capitale si teme anzi una nuova svalutazione della lira libanese dopo il voto (fra il 2019 e inizio 2022 la moneta ha perso oltre il 90 per cento del proprio valore rispetto al dollaro). Il governo in carica ha mantenuto la lira più o meno stabile da metà gennaio, pompando dollari nel sistema attraverso la Banca centrale, ma è una politica molto cara destinata a finire dopo le elezioni.

Nel frattempo i numeri delle organizzazioni internazionali che parlano di tre quarti dei libanesi ormai sotto la soglia di povertà trovano riscontri nel mondo reale.

Lo scorso mese un barcone di emigranti, fra cui molti libanesi, è affondato poco dopo aver lasciato la città costiera di Tripoli, una delle più svantaggiate del Mediterraneo. Su un’imbarcazione abilitata a trasportare 12 persone, i trafficanti avevano fatto salire a bordo alla volta dell’Italia fra 60 e 70 disperati. Fra gli annegati c’erano anche tante vittime della crisi.

Sfida per la presidenza

Guidando verso Batroun, la graziosa cittadina di villeggiatura marittima a nord di Beirut, sulla corsia opposta si vedono centinaia di macchine con le bandiere delle “Forze libanesi”, il partito cristiano guidato dall’ex signore della guerra Samir Geagea, riversarsi strombazzando verso Beirut.

All’ingresso di Batroun, che ha continuato a svilupparsi durante la crisi con nuovi alberghi e locali spuntati attorno alle antiche chiesette maronite, campeggiano invece le gigantografie di Gebran Bassil. È il loro avversario nel campo cristiano: il suo Movimento patriottico libero è alleato di maggioranza degli sciiti di Hezbollah.

Bassil è uno dei protagonisti della corsa alla presidenza. Il parlamento che viene eletto domenica, infatti, sarà chiamato a scegliere il nuovo capo dello stato a fine ottobre quando Michel Aoun, suo suocero, terminerà il proprio mandato.

Bassil tiene a presentare Batroun, da cui proviene, come il proprio biglietto da visita, ma i libanesi lo considerano piuttosto un campione di corruzione. Le sue chances di ottenere il sostegno di due terzi dei deputati, necessario per l’elezione, sono dunque scarsi.

Il rischio è che la formazione del nuovo governo e la scelta del presidente rimangano incagliate in uno stallo di trattative prolungate, ostacolando le riforme richieste dal Fondo monetario per soccorrere il paese.

Fra queste c’è la spinosa questione del settore pubblico: si tratterebbe di sfoltire il numero di dipendenti dello stato, circa 350mila libanesi secondo le stime. Ma la verità è che nessuno conosce la cifra reale, come nessuno sa quante riserve straniere rimangano ancora nelle disponibilità della Banca centrale per tamponare la svalutazione.

Torna in mente un detto che girava a Beirut all’epoca della sanguinosa guerra civile: “A Beirut non c’è la verità, ci sono solo delle versioni”. Anche sul fronte dell’inchiesta sull’esplosione del porto, le famiglie delle vittime si trovano sommerse di narrazioni contrastanti. Con poco da aspettarsi dalla commissione di inchiesta, e nulla da augurarsi con le elezioni.

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