La storia dell’Islam politico in Libia riflette quella del paese: un debole centro in lotta contro una periferia ribelle caratterizzata da frammentazione e divisioni. Dieci anni dopo la morte di Muhammar Gheddafi è pressoché impossibile identificare un unico e coerente movimento islamista.

Tale scenario è in parte funzione del modo in cui sono iniziate le sollevazioni e poi la guerra contro Gheddafi, in parte riflesso della tradizionale struttura del potere politico e della società libica, dove dinamiche regionali e identità locali spesse volte trascendono preoccupazioni nazionali. La mancata aggregazione dei gruppi e l’ambiente altamente competitivo hanno inciso sull’emergere di personalità, leader e comandanti di milizie o formazioni proni più a espandere i loro feudi di potere che non a diffondere la propria ideologia.

I legami con l’Egitto

Nel 1973, la rivoluzione culturale ha permesso a Gheddafi di colpire gli islamisti, che lui soleva chiamare zanadiqa (gli eretici), come potenziale fonte di dissenso e ribellione al suo regime. Consapevole di ciò che stava accadendo in Egitto, il colonnello ha cercato di ostacolare il braccio libico dei Fratelli musulmani reprimendoli come nemici della rivoluzione insieme ad altri oppositori quali i baathisti e i marxisti. Il movimento è stato costretto da allora a operare essenzialmente in esilio e i suoi quadri sono potuti tornare in Libia soltanto nel contesto delle rivolte del 2011.

Dopo la caduta del colonnello, l’organizzazione politica della Fratellanza, il Justice and construction party (Jcp), è riuscito a imporsi nella vita pubblica limitatamente ai primi mesi della transizione. In breve, tuttavia, la Fratellanza si è ripiegata sulle proprie divisioni interne, alimentate dal fallimento nel 2013 dell’esperimento islamista egiziano di Mohammed Morsi. Proprio il golpe di al-Sisi ha galvanizzato il sentimento anti islamista in Libia al punto da spingere il Jcp a dichiarare la sospensione delle proprie attività in seno al Congresso nazionale generale (Gnc).

L’associazione con la casa madre egiziana è dovuta apparire ai leader della branca libica come eccessivamente tossica per la propria immagine e legittimità presso l’opinione pubblica, al punto da spingere verso un processo di revisione che ha voluto inizialmente ispirarsi al modello tunisino del movimento an-Nahda.

Il generale consenso rispetto alle necessità di una riforma interna si è scontrato tuttavia con la resistenza di alcune correnti interne alla Fratellanza difficilmente disposte a rinunciare agli storici legami con l’Egitto. Lo stallo si è protratto fino alla divisione del paese nel 2014, quando i Fratelli musulmani si sono schierati con l’operazione Alba libica, una coalizione variamente unificata di forze islamiste e rivoluzionarie guidata dai gruppi armati di Misurata e supportata dal Qatar e dalla Turchia.

Ma la scelta di campo, cioè la capitale Tripoli, ha finito per danneggiare ulteriormente l’immagine dell’organizzazione esponendola ad accuse di estremismo. Incapace di sganciarsi dal campo rivoluzionario, la Fratellanza si è così persa all’interno della variegata e confusa galassia islamista libica.

L’implosione della Fratellanza

Tra il 2015 e il 2018, di fronte alla possibilità di partecipare al processo di pace mediato dalle Nazioni unite, il Jcp si è spaccato in due tronconi: da una parte, coloro che non volevano accettare l’accordo politico di Skhirat in nome delle tradizionali posizioni della Fratellanza; dall’altra, i riformisti convinti della necessità di una riforma del Jcp al di là del movimento di base. Quest’ultimo ha tentato di riprendere il controllo del partito dopo le dimissioni del segretario, Mohammed Sawan, ma l’operazione è servita solo ad accrescere l’irrilevanza di entrambe le correnti del Jcp sulla scena politica nazionale.

Nell’agosto 2020, la branca di Zawiya della Fratellanza ha proclamato la propria dissoluzione, seguita due mesi dopo da quella di Misurata. Perduti i due principali centri di potere, il movimento è imploso al punto che, nel maggio 2021, i Fratelli hanno annunciato la trasformazione dell’organizzazione politica in una Ong chiamata “Revival and renewal association”.

Militanti nel caos

Divisioni e fallimenti, nondimeno, hanno caratterizzato anche l’ala militante dell’islamismo politico. Dal 2011, nessun gruppo o organizzazione ha avuto la forza sufficiente per proporre un progetto islamista coesivo e unificante capace di trascendere le fratture sociali e tribali del paese. Le varie componenti, da ciò che rimane di al-Qa‘ida fino al Libyan islamic fighting group (Lifg), non sono riuscite a elaborare una strategia comune e anche la scena jihadista è stata caratterizzata da parcellizzazione e dal protagonismo di pochi comandanti locali privi di base sociale e forti solo dell’uso delle armi.

Le motivazioni vanno ricercate nel modo in cui si è fatta la guerra del 2011, le stesse d’altronde alla base della frammentazione del paese: i singoli gruppi di rivoltosi, divenuti rivoluzionari, hanno operato per estendere i propri feudi di potere in quelle città, villaggi o singoli quartieri dove avevano combattuto contro le forze del regime. Il risultato è stata la compressione del messaggio islamista alle singole leadership che i vari gruppi di militanti avevano espresso nel tempo.

Come nel caso di Ahmed Majberi, capo delle Brigate dei martiri di Zintan, questi comandanti hanno deciso di interpretare il ruolo dei rivoluzionari giacobini più che quello dei predicatori islamisti. Ma così facendo hanno perso la loro identità, condannandosi all’irrilevanza nel mezzo del crescente caos in cui proliferavano decine di gruppi che inseguivano i medesimi obiettivi di presunta purezza rivoluzionaria.

Tentativi falliti

Chiaramente, non è possibile negare che alcuni gruppi abbiano ricercato un maggior rigore puritano e una più esplicita agenda ideologica. Dal 2011, Ansar al-Sharia è stato certamente il principale attore libico ad aver tentato di avviare un percorso militante che potesse imporre la sharia nelle città di Bengasi, Derna e Sirte. Tuttavia, al di là di qualche momentanea capacità espansiva, la formazione salafita si è presto dovuta arrendere al suo limitato potere aggregativo e alla forza di gruppi più numerosi e radicati come le Brigate martiri Abu Salim a Derna.

Parimenti, il tentativo del leader Mohammad al-Zahawi di creare un brand nazionale (Aas-Libya) era destinato al fallimento e, al di là dell’ammirazione che le componenti dell’organizzazione potessero provare per al-Qa‘ida, poche prove sussistono per sostenere una filiazione con il mondo qaedista.

L’inizio dell’operazione dignità del maresciallo Khalifa Haftar nel maggio 2014 è riuscita per qualche mese a galvanizzare il fronte islamista in Cirenaica al punto da vedere la formazione del Consiglio della Shura dei rivoluzionari di Bengasi. Al marzo 2017, stravolti dall’offensiva di Haftar e dalle faide interne, sia il Consiglio di Bengasi che Ansar al-Sharia hanno annunciato la propria dissoluzione. Nondimeno, la vittoria del maresciallo ha aperto la porta alla corrente salafita madkhalita che, sotto il patronato dell’esercito nazionale libico, è riuscita a infiltrarsi nello spazio religioso della Cirenaica.

La debolezza dell’Isis

Anche lo Stato islamico in Libia era condannato al fallimento. Sebbene sconfitto nella battaglia di Sirte del 2016 da una coalizione di forze guidate da Misurata con il supporto dell’aviazione e dei droni americani, la sua espansione è stata una breve fiammata e una pallida imitazione (nonostante alcune azioni a forte impatto mediatico come la decapitazione pubblica dei cristiani copti) della casa-madre in Iraq.

Sono state infatti le condizioni politico sociali di Sirte, Derna e Bengasi a favorire la penetrazione dell’Isis, ma le stesse condizioni ne hanno determinato la debolezza. Sirte, baluardo controrivoluzionario e luogo di nascita di Gheddafi, è stata conquistata nel 2011 da brigate rivoluzionarie composte da veterani del jihad in Afghanistan e Iraq.

Le purghe attuate nella città hanno lasciato spazio solo alle formazioni islamiste che in breve hanno aderito ad Ansar al-Sharia prima e all’Isis poi. Tuttavia, la vastità del territorio, la competizione tra gruppi e movimenti islamisti diversi, le appartenenze tribali, la scarsa partecipazione di ex ufficiali del regime, ha impedito allo Stato islamico di esercitare il suo ascendente sui giovani e sulle comunità locali e di esprimere un vero potere militare. Sconfitti, i miliziani si sono ritirati in sparuti gruppi nel Fezzan, costretti a lottare più per la sopravvivenza che non per il dominio del territorio.

Dinamiche in corso

Con la fine dell’Isis a Sirte e del Consiglio rivoluzionario a Bengasi, la Tripolitania è divenuta il centro di ciò che è rimasto dell’Islam politico in Libia. La scena è stata dominata dalla corrente salafita madkhalita e dall’ala più ortodossa che fa riferimento al Gran Mufti Sadiq al-Ghariani, ognuna con il suo ascendente sulle diverse formazioni militari che proteggono e dominano la capitale.

I vari gruppi sono stati in grado di evitare la collisione solo grazie alla decisione di Haftar di lanciare nella primavera del 2019 un’offensiva su Tripoli. L’assedio avrebbe infatti spinto i principali gruppi armati a coalizzarsi in difesa del Governo di accordo nazionale (Gna) di Fayez al-Serraj (e dunque dei loro feudi di potere economico) e premere sullo stesso affinché accettasse un intervento della Turchia. L’intervento di Ankara nel conflitto ha rappresentato in tal senso il più importante fattore di stabilizzazione dei rapporti tra milizie e gruppi armati, ma anche un rinnovato senso di legittimazione da parte dell’Islam politico in Tripolitania.

Sebbene la scena dell’Islam politico in Libia rimanga dunque altamente frammentata, divisa e incapace di esprimere un disegno ideologico-politico coerente e di respiro nazionale, alcune dinamiche non possono tuttavia essere ignorate. La recente ricomparsa del Qatar sulla scena politica libica è coincisa con il ritorno nel paese di alcune storiche figure dell’islamismo militante come Abdel Hakim Bilhaj, ex leader del Libyan islamic fighting group e capo del partito al-Watan, ritiratosi anni fa in autoesilio a Doha.

Allo stesso modo, il Gran Mufti continua a mettere in guardia dalla diffusione della predicazione madkhalita nelle moschee libiche. Dinamiche non sufficienti a definire un trend politico nazionale, ma che richiederanno maggiore attenzione in futuro.

© Riproduzione riservata