Tredici milioni di telespettatori americani hanno visto tutti la stessa inquadratura, per otto ore, ma non hanno cambiato canale: persone che parlano sullo sfondo di un prezioso marmo nero screziato, mentre la regia manda in onda “contributi” video con una tecnologia di trent’anni fa. Poteva essere monotono, è stato emozionante.

Dicono i cronisti presenti che i senatori erano ipnotizzati, qualcuno si teneva la testa tra le mani, altri si toglievano lacrime dalle palpebre; scrive il Wall Street Journal: «Il senatore Lankford, repubblicano dell’Oklahoma – uno di quelli che il 6 gennaio aveva obiettato alla certificazione della vittoria di Biden – china la testa sul banco. Il senatore Steve Daines, repubblicano del Montana, che gli siede vicino, gli tocca il braccio con la mano, per confortarlo».

Il secondo giorno del processo a Trump nell’aula del Senato è stato drammatico e destinato a essere ricordato nei libri di storia; i cinque deputati democratici cui è affidata l’accusa sono stati impeccabili, brillanti ed emozionanti, “unendo i puntini” della tragica avventura di Donald Trump: dalla sua intima convinzione che avrebbe perso le elezioni, alla contemporanea decisione di non accettare il risultato, fino alla disperazione finale che lo ha spinto a organizzare e finanziare, fino nei dettagli, l’insurrezione del 6 gennaio utilizzando una propria milizia personale, con l’obiettivo di ribaltare il risultato elettorale e impedire la proclamazione della vittoria del suo rivale Joe Biden.

Il discorso è stato logico e conseguente, e si è basato sulle decine di “pistole fumanti” che l’ex presidente ha lasciato dietro di sé: dichiarazioni pubbliche, discorsi, pagamenti effettuati, intimidazioni, e soprattutto tweet. I tweet non muoiono, ma vagano nell’universo elettronico e sono facilmente rintracciabili. E Trump, convinto da sempre di essere al di sopra della legge e della punizione ha disseminato di cinguettii la sua carriera criminale.

L’altro elemento che farà entrare la giornata negli annali della grande oratoria giudiziaria è stato l’uso della scena del delitto. I pm del partito democratico hanno parlato ai giurati (tali sono i senatori che saranno chiamati tra pochi giorni a emettere un verdetto) che sono stati nello stesso tempo protagonisti, testimoni, complici e vittime di quello che era successo. L’aula era quella in cui i senatori si erano accucciati sotto i banchi, avevano indossato le maschere a gas; qui a un passo c’era la barricata che ha impedito agli insorti di entrare, appena là, è stata uccisa da una revolverata al cuore la dimostrante Ashli Babbit, venuta dalla California per partecipare alla “Giornata del Grande Risveglio”; e dall’altra parte della sala è morto, da eroe, con il torace sfondato da un estintore, l’agente Brian D. Sicknick della polizia municipale, che con la sua resistenza di fronte a “forze soverchianti”, ha dato le briciole di tempo necessario a deputati e senatori per non farsi ammazzare.

Con ogni probabilità, un buon numero di senatori aveva nella tasca dei pantaloni il cellulare con cui il 6 gennaio ha mandato un sms a casa: «Forse mi ammazzano, vi amo». Sono stati bravissimi, i cinque “prosecution manager”: un avvocato afroamericano che assomiglia a Obama giovane, il figlio di un profugo vietnamita, una professoressa di Philadelfia, un californiano dal buffo nome italiano, un democratico del Texas, «che sa cosa vuol dire perdere un’elezione» e – la più brava di tutte – la giovane caraibica Stacey Plaskett, che viene addirittura dalle Isole Vergini, un posto che Trump considera uno di quegli “shitholes” (cessi) che hanno rovinato l’America bianca. Forse perderanno la causa, ma resteranno come l’immagine dell’America del futuro.

Il mancato assassinio

Dal punto di vista “politico giudiziario”, c’è stata comunque una grande novità. L’Accusa ha ricostruito – con elementi prima mai esibiti: filmati della sicurezza interna al Campidoglio, comunicazioni audio della polizia, ricostruzione spazio temporale degli eventi – un episodio cruciale. Quello che, senza troppe perifrasi, è stato chiamato “il mancato assassinio” del vice presidente Mike Pence, che fino a ora era rimasto sullo sfondo sfocato degli eventi.

Mike Pence, vice presidente degli Stati Uniti (uomo estremamente conservatore, già governatore dell’Indiana, religioso bigotto, taciturno di carattere) è chiamato a presiedere la cerimonia di certificazione del voto, il 6 gennaio 2021, e quindi ufficializzare la vittoria di Biden. Trump ha cercato, dalla notte del 3 novembre in poi, per ben 77 giorni, di dichiarare nullo il voto: con 62 assurde cause legali, tutte perse; con mobilitazione violenta della sua base in Michigan, in Arizona, in Georgia, in Pennsylvania, con intimidazioni e minacce a funzionari repubblicani, ma non è riuscito a fermare gli eventi.

Per questo, già dal 19 dicembre ha convocato la sua base, per marciare sul Campidoglio nell’ultima giornata utile, il 6 gennaio («You will have to fight like hell!»). Ha contattato Pence, chiedendogli di sospendere il voto; Pence gli ha risposto, a voce e per iscritto, che non rientra nelle sue prerogative. Ma Trump è comunque riuscito a trovare undici senatori, guidati da Josh Hawley del Missouri e Ted Cruz del Texas che contestano la procedura e rallentano le operazioni.

È la mattina del 6; alle 8.31 Trump twitta, rivolto a Pence: «Se rinvii, rifacciamo le elezioni e vinciamo»; (ovvero, tu rimani vicepresidente); alle 11 Trump si presenta al comizio dei suoi diecimila sostenitori a un chilometro dal Campidoglio, ha parole dure contro Pence, invita a marciare sul palazzo per «infondere coraggio ai paurosi». La folla marcia, i Proud Boys pigliano la testa – a proposito, si scopre che l’Fbi sapeva tutto – sfondano debolissimi cordoni di polizia, e sciamano nell’edificio.

E qui c’è la sorpresa dell’udienza di ieri. Un tweet di Trump delle 2.24: «Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare quello che andava fatto per proteggere la Patria e la Costituzione, ovvero dare agli Stati la possibilità di certificare come è andato veramente il voto, e non sulla base del conteggio inaccurato e fraudolento sul quale sono stati chiamati a certificare. Gli Stati Uniti chiedono la verità!». E dov’è Pence alle 2.24? È ancora nel suo ufficio, accanto al salone del Senato, con la famiglia.

Viene sgombrato, con rude velocità, dai servizi segreti, alle 2.26 e portato “in un luogo sicuro dentro il Campidoglio. Due minuti appena, mentre la folla (e i filmati lo mostrano con evidenza) cerca Pence per i corridoi, lo insulta come traditore e urla “impicchiamolo!”. Il timing è stato casuale? Certo, qualcuno davvero può sospettare che quel tweet fosse un ordine di uccidere?

Resta però il fatto che quel tweet sia stato l’unico – ad attacco in corso – che porti l’impronta digitale del presidente. Un Trump, che richiesto da tutti – in televisione! – di twittare per fermare l’attacco e le violenze delle sue milizie, non lo farà per ben tre ore e mezzo.

Ribellione silenziosa

Pence è in assoluto silenzio da quel giorno e non ha alcun ruolo di potere nel partito repubblicano; ma è probabile che di questa storia sentiremo parlare ancora. Intanto, l’accusa ha introdotto il tema dell’omicidio premeditato nel fascicolo ed ha avuto parole di elogio per la scampata vittima: per aver resistito a Trump, il vice presidente ha rischiato di essere ucciso (anzi, “assassinated”, che è più forte) e dovrebbe essere considerato un eroe, in particolare dal partito repubblicano. Cosa che non succederà.

I pundit non prevedono 17 casi di coscienza che possano portare all’approvazione di sanzioni contro l’ex presidente Trump (che però proprio ieri è stato bandito in eterno da Twitter) e la spiegazione è abbastanza semplice. Il partito è “posseduto” dall’ex presidente ed è governato dal suo culto della personalità, come era in Russia il partito comunista ai tempi di Stalin (e anche prima, eh). I senatori che devono affrontare il loro collegio e le prossime elezioni non possono farlo senza l’appoggio di Trump; votare per l’impeachment sarebbe per loro l’equivalente dei gerarchi fascisti che votarono l’ordine del giorno Grandi: prospettiva di fucilazione a Verona. Già ora chi si è opposto, come Liz Cheney, è stata pesantemente minacciata; stessa sorte per le decine di funzionari che si sono rifiutati di esaudire i desideri di Trump di truccare il voto.

Nel frattempo però, silenziosi come formiche e sparsi in tutta l’America, 150mila iscritti al partito hanno restituito la tessera e gruppi informali, con esponenti di prestigio del precedente establishment repubblicano, incominciano a riunirsi e a far balenare l’idea di un nuovo partito che si allontani, almeno, dai culti religiosi che sembrano possederlo. Si vedrà. È possibile che la Salò del XXI secolo diventi la villa di Mar-a-Lago in Florida: un faro di civiltà occidentale identitaria che vanta 76 milioni di voti, milizie organizzate, una pelle candida, buone idee per fare soldi. Tutte cose che continuano a essere apprezzate, anche da noi.

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