Il Partito comunista cinese ha accolto la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov ribadendo il giudizio politico, liquidatorio, sull’ex leader sovietico. «Durante il periodo in cui è stato alla guida dell’Urss, ha commesso gravi errori nel giudicare le vicende nazionali e internazionali, e i fatti hanno dimostrato che le sue politiche sono state catastrofiche per il paese» ha scritto mercoledì il Global Times.

Il giornale del gruppo editoriale del Quotidiano del popolo (organo ufficiale del Comitato centrale del Pcc) bolla Gorbaciov come «una figura tragica, senza principi e compiacente con gli Stati Uniti e l’Occidente», un «ingenuo e immaturo, che ha rappresentato un certo periodo storico in cui la Russia oscillava tra la “ricerca di una via indipendente” e “l’abbraccio all’occidente”». Ma nell’ultimo decennio - conclude il Global Times - il presidente russo, Vladimir Putin, «ha imparato dalle lezioni del leader sovietico degli anno Novanta, portando il suo paese su un percorso autonomo».

Gorbaciov a Tiananmen

Nella primavera del 1989 Gorbaciov fu il primo segretario del Partito comunista dell’Unione sovietica a recarsi a Pechino dopo la rottura sino-sovietica di trent’anni prima. L’uomo della glasnost e della perestroika sbarcò in una capitale cinese scossa dal movimento che osò pretendere libertà e denunciare la corruzione del Pcc. Un gruppo di studenti in piazza Tiananmen lo salutò srotolando uno striscione dai caratteri inequivocabili: “Benvenuto ambasciatore della democrazia”.

Durante il Summit sino-sovietico (15-18 maggio), Gorbaciov incontrò Deng Xiaoping - fautore di buone relazioni tanto con l’Urss quanto con gli Usa -, l’allora segretario del Pcc Zhao Ziyang, che si schierò dalla parte dei manifestanti (e che per questo fu rimosso e incarcerato), e il premier Li Peng, che con Deng ordinò all’Esercito popolare di liberazione di far fuoco sui dimostranti nella notte tra il 3 e il 4 giugno. In quell’89 in cui i regimi socialisti dell’Europa orientale cadevano uno dopo l’altro, il Pcc ha sempre rivendicato quella decisione (che causò la morte di centinaia di civili) che - secondo Deng e compagni - in Cina salvò il socialismo.

Due anni e mezzo più tardi, il crollo dell’Urss rappresentò per il Pcc un trauma più profondo delle divisioni evidenziate dai suoi dirigenti nella repressione di Tiananmen. I comunisti cinesi videro dissolversi quello che per loro aveva rappresentato il modello. Infatti non soltanto il Pcc era stato fondato, nel 1921, su impulso della Terza internazionale egemonizzata dai sovietici, ma, al momento della proclamazione della Repubblica popolare (1° ottobre 1949), Mao aveva traslato nella nuova Cina l’architettura istituzionale e burocratica dell’Urss, mentre il leninismo resta tuttora una componente importante dell’ideologia del Pcc e l’economia (fino a Deng) ha seguito piani quinquennali come quelli staliniani.

L’analisi del lutto dell’Urss

Per il Pcc l’elaborazione di quel lutto coincise con un esame lungo e approfondito delle sue cause, nel tentativo di impedire che la Repubblica popolare cinese finisse come l’Unione sovietica. L’analisi condotta dall’Istituto di studi sovietici e dell’Europa orientale dell’Accademia cinese di scienze sociali (Cass) identificò una serie di elementi scatenanti il crollo dell’Urss e dei regimi satelliti: il deterioramento dell’economia; alti livelli di debito; bassi tenori di vita; dittatura; partiti di governo disconnessi dalla popolazione; carenza di istituzioni di partito di base; sindacati (semi-indipendenti) che non fungono da semplice “ponte” tra il partito e i lavoratori; “evoluzione pacifica” promossa dai governi occidentali.

Questi fattori vennero indagati paese per paese da una serie di importanti istituzioni: oltre alla Cass, la Scuola centrale di partito, il dipartimento esteri, l’Istituto sul socialismo nel mondo, l’Ufficio centrale di traduzione e l’Ufficio di studi politici del Comitato centrale. Una ricerca che, partita durante la segreteria di Jiang Zemin (1989-2002), si protrasse a quella di Hu Jintao (2002-2012).

Un lavoro che secondo David Shambaugh (che ha dedicato all’argomento una parte dei suoi studi) è all’origine delle fluttuazioni della politica interna post-Tiananmen della Cina, distinguibile in due fasi, quella “liberale” dal 1995 al 2008 (segreteria di Jiang e primi cinque anni di Hu) e quella “conservatrice” dal 2009 a oggi, durante il secondo mandato di Hu (quando Xi Jinping era già stato scelto come “erede designato” alla guida del partito) e sotto Xi. Secondo il sinologo statunitense, mentre le leadership di Pechino hanno concordato sulle cause della caduta dell’Urss, sulla lezione da trarne hanno adottato approcci differenti.

In un primo momento si credette che le riforme di Gorbaciov non fossero intrinsecamente negative, piuttosto arrivate tardi e attuate troppo in fretta. E così Jiang, con la teoria delle “tre rappresentanze”, esplicitò l’urgenza di cooptare nel partito gli imprenditori e Hu, con la sua “società armoniosa” proseguì lungo un percorso che prevedeva che per sopravvivere il partito si adattasse a una società sempre più plurale.

Ma col prevalere dei conservatori la linea è stata invertita. E nella “Nuova era”, segnata da forti squilibri interni alla Cina e dallo scontro con gli Stati Uniti, Xi ha bloccato le “liberalizzazioni” e ha deciso di allontanare lo spettro di Gorbaciov rafforzando continuamente il partito e accentrando sempre più poteri nella sua leadership.

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