Il senatore del Kentucky Mitch McConnell per gran parte della sua vita pubblica non ha mai brillato particolarmente per carisma o brillantezza: la sua fama gli deriva dal suo uso spregiudicato di tattiche congressuali toste e spesso scorrette per ottenere dei risultati immediati per l’agenda politica repubblicana.

Adesso che ha annunciato il suo ritiro dalla carica di leader del gruppo repubblicano al Senato (finirà comunque il suo mandato, in scadenza con l’elezione del nuovo Congresso a novembre) però, ci si ricorda di più l’ultimo McConnell, quello in grado di raggiungere accordi bipartisan con un presidente come Joe Biden e di essere il più acceso sostenitore del ruolo globale dell’America nel sostenere alleati come l’Ucraina e Taiwan, due stati che «non devono essere inghiottiti da vicini aggressivi» come Russia e Cina.

La sua uscita di scena è l’ultimo step di un processo politico in corso dal 2016 a oggi: la trasformazione del vecchio partito repubblicano reaganiano, conservatore su fisco e bioetica, internazionalista in politica estera e aperto nei confronti del libero scambio, in una forza nazional-conservatrice con punte di etno-nazionalismo, isolazionista e favorevole a un uso massiccio dei dazi per proteggere le industrie e la classe operaia americana.

L’addio

Nel suo discorso d’addio, infatti Mitch McConnell ha tracciato un breve testamento politico, dove si è definito quale strenuo difensore dell’eccezionalismo americano e del ruolo statunitense di tutore dell’ordine internazionale. Non solo: ha citato la sua dedizione al lavoro congressuale, sconfitta solo “da Padre Tempo”, e ha concluso citando il suo predecessore Henry Clay, rappresentante del Kentucky al Senato nella prima metà dell’Ottocento e la sua descrizione della Costituzione come “guida perenne” delle future generazioni di leader.

Finisce così un percorso che l’ha visto guidare il partito repubblicano per diciotto anni, di cui sei nel ruolo di leader di maggioranza ed effettivo padrone del Senato.

La successione

Con diversi mesi di tempo ora si apre la corsa alla sua successione, con la candidatura quasi certa dei “tre John”: John Thune, senatore del South Dakota, è forse il più fedele. Attuale numero due dei repubblicani, come McConnell è critico del presidente Trump, anche se neha annunciato nei giorni scorsi il suo endorsement all’ex presidente in modo a dir poco tiepido.

E forse per questo con poche chance di riuscita. Poi c’è John Cornyn, del Texas, ideologicamente molto affine a McConnell e come lui conservatore di un’altra epoca, poco in linea con la svolta di estrema destra del governo del suo stato di appartenenza. Infine, John Barrasso, medico del Wyoming, moderato nei modi e attuale numero cinque nel gruppo di comando dei repubblicani al Senato.

Lui è il più convintamente trumpiano e forse questo gli dà una chance in più per conquistare lo scettro del comando a partire dal 2025. McConnell, per una volta, guarderà la contesa da spettatore. Perché come ha detto nel suo discorso di addio, pur avendo “molti difetti, la mancata comprensione della situazione politica non rientra tra questi”. E la sua convivenza con un eventuale fase due del trumpismo sarebbe stata probabilmente impossibile.

E pensare che McConnell, all’inizio del suo percorso, era totalmente altra cosa anche rispetto ai conservatori di matrice reaganiana che allora stavano prendendo il controllo del partito: il suo profilo era quello un moderato centrista pragmatico, sposato con una docente di gender studies, esponente di un centrismo repubblicano che stava per essere travolto dalla rivoluzione reaganiana.

Sin dai suoi primi anni come giudice capo della contea di Jefferson (una sorta di sindaco metropolitano nell’ordinamento del Kentucky) ha mostrato però una dote molto utile in politica: saper orientarsi nel cambiamento del partito.

In virtù di questa sua abilità era stato eletto senatore nel lontano 1984 con l’appoggio entusiasta di Ronald Reagan, avvenuto durante un comizio dove l’allora presidente aveva sbagliato il suo nome chiamandolo “O’Donnell” e molti anni dopo, durante la presidenza di George W. Bush, sarebbe diventato un acceso sostenitore delle politiche neoconservatrici dell’allora inquilino della Casa Bianca, aiutandolo nella veste di vicecapogruppo al Senato a tenere un filo diretto nei confronti del presidente.

Questa carriera nell’ombra poi viene premiata nel 2006 con l’elevazione a capo del raggruppamento repubblicano, proprio nel momento in cui i democratici guidati dal senatore del Nevada Harry Reid si apprestavano a conquistare la presidenza con un loro collega, il giovane senatore dell’Illinois Barack Obama, mai stimato da McConnell per il percepito scarso rispetto per i riti del Senato.

Anche per questo durante i suoi otto anni di presidenza, McConnell ha affermato con forza la tesi che «l’unico obiettivo come gruppo repubblicano che dobbiamo far centrare a Obama è quello di diventare un presidente eletto una volta sola».

Il suo ostruzionismo ha raggiunto la quasi perfezione nel rallentare costantemente le nomine giudiziarie, raggiungendo il culmine nel febbraio 2016: dopo la morte del giudice conservatore della Corte Suprema Antonin Scalia, ha preso quella che lui ha definito «la decisione più significativa della sua carriera»: bloccare qualsiasi audizione in commissione giustizia, mettendo sul piatto delle presidenziali di quell’anno anche gli equilibri della Corte Suprema. Un azzardo che ha pagato, anche perché ha portato una quota decisiva di moderati a decidere di votare un candidato come Donald Trump, del quale già allora si intravedevano i gravi difetti.

Il rapporto con Trump

Nel quadriennio del tycoon però, McConnell ha vinto il suo disgusto per il personaggio diventando il fedele esecutore della sua agenda, fallendo però nell’abolizione dell’Obamacare anche per l’opposizione di quello che forse era il leader più ostile a Trump del suo gruppo, il senatore John McCain dell’Arizona, il cui voto è risultato decisivo per affossare la cancellazione della riforma sanitaria voluta dal presidente dem.

Al contrario, è stata particolarmente efficiente la sua gestione delle nomine giudiziarie, culminate nell’approvazione di tre nuovi giudici conservatori, dei quali l’ultima, Amy Coney Barrett, in totale spregio a una regola informale citata da McConnell nel febbraio 2016: non si votano nuovi giudici in un anno di elezioni presidenziali.

Invece la progressista Ruth Bader Ginsburg, morta improvvisamente nel settembre 2020 dopo una lunga malattia, venne sostituita rapidamente poche settimane prima dell’elezione che avrebbe visto la sconfitta di Trump.

A quel punto, dopo che l’allora presidente insisteva nel suo tentativo di ribaltare il risultato del voto, McConnell ha preso la decisione di separare la sua strada da quella del tycoon, riconoscendo la vittoria di Joe Biden, a lungo suo collega al Senato, e tenendo un appassionato discorso in difesa delle istituzioni democratiche dal rischio «di finire in un gorgo mortale» pochi minuti prima che il Campidoglio venisse assaltato il 6 gennaio 2021 da manifestanti aizzati proprio da Trump per interrompere il conteggio dei voti dei grandi elettori.

A McConnell però manca il coraggio di votare per incriminare l’ex presidente nel secondo voto di impeachment, che si tiene nel primo mese di presidenza di Joe Biden, con la segreta speranza che l’agibilità politico del suo ex alleato politico di comodo fosse finita con l’appoggio a un esplicito atto insurrezionale e che i suoi sostenitori sarebbero tornati gradualmente a più miti consigli.

Un errore, alla luce della situazione odierna, molto grave per chi come lui si è sempre voluto mostrare come profondo conoscitore dei venti che scuotono la politica americana decennio dopo decennio.

Anche per questo, forse, è stato sorprendentemente collaborativo nei confronti di Joe Biden, approvando due importanti leggi bipartisan come quella sul rinnovo delle infrastrutture, votata nel 2021 e quella sulla sicurezza delle armi da fuoco, approvata nel 2022. Una sinergia culminata con un evento congiunto in Kentucky il 4 gennaio 2023 per l’inaugurazione di un nuovo ponte stradale, prodotto dell’accordo bipartisan di due anni prima.

McConnell lascia il suo posto in un momento in cui il suo granitico sostegno alla causa dell’Ucraina aveva perso la sua spinta propulsiva soprattutto nelle fila di un partito repubblicano sempre più trumpizzato e meno incline a tollerare la benché minima critica ai desiderata del tycoon.

Un primo giudizio storico sulla sua figura arriva da Al Cross, direttore emerito della scuola di giornalismo dell’università del Kentucky e per lunghi anni capo della sezione politica del Courier Journal di Louisville. Interpellato da Domani, ha affermato: «Per il Kentucky si è spento un polo magnetico e senza di lui ci sarà un lungo conflitto interno ai repubblicani, mentre per il Paese è il segno che il partito ormai è di Donald Trump e che l’influenza di McConnell ormai è finita». Una parabola conclusa in questo modo anche per quella decisione di non incriminare Trump all’indomani di Capitol Hill per un tatticismo confuso e privo di visione lungimirante.

Un finale di carriera che definisce in modo spietato la sua eredità politica.

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