Federica Mirto è una cooperante italiana di 31 anni che da qualche mese lavora per la Casa del migrante, una organizzazione gestita dai missionari scalabriniani che presta aiuto ai migranti sudamericani al confine tra il Messico e la California.

 «A Tijuana mi chiamano guera, che significa bionda e più in generale ragazza dalla pelle chiara. Altre volte i migranti mi chiamano gringa anche se a me non piace perché è il modo in cui i latinos chiamano gli americani. Io sono nata e cresciuta a Roma, Roma Nord, ma in quel quartiere mi sono sempre sentita fuori posto, non mi è mai appartenuto. Sono sempre stata la ragazza povera della Roma ricca. Vivo all’estero da cinque anni.

Prima di arrivare a Tijuana, ho lavorato come volontaria in Nepal, presso un monastero buddista, per una organizzazione di medici americani che prestava cure oculistiche alla popolazione locale. Al triennio ho studiato scienze politiche e per la laurea specialistica cooperazione internazionale. Sono esperta di Myanmar e ho scritto articoli accademici sulla situazione dei Rohingya, la minoranza musulmana colpita dalla pulizia etnica.

Vivo alla Casa del migrante da qualche mese. La congregazione degli scalabriniani è stata fondata a Piacenza alla fine dell’Ottocento dal Beato Giovanni Battista Scalabrini. All’inizio assistevano i migranti italiani che partivano per le Americhe. Oggi a Tijuana i missionari e i cooperanti assistono i migranti sudamericani che rincorrono il sueño americano. Sono l’unica italiana qui. Perché sono partita? Non sono una santa, né sono religiosa, e non voglio che i migranti mi vedano come la donna bianca generosa che aiuta i poveri del mondo. Ho semplicemente amore da dare e allo stesso tempo credo di nutrirmi delle storie di queste persone. Ma non voglio parlare di me, le storie importanti sono quelle dei migranti con cui lavoro e che nessuno racconta.

La rincorsa del sogno americano

Qui soffrono tutti di malinchismo, che è una parola antica legata al mito di Malinche, una donna Nahua che nel 1500 aiutò Hernan Cortes a conquistare le popolazioni indigene del Messico. Il malinchismo è una sorta di complesso di inferiorità, il preferire la cultura di altri paesi alla propria. A Tijuana coincide con il sogno di scappare al nord, oltre il confine. Qui a Tijuana i migranti provano una sorta di odio e amore per gli stranieri. È il sentimento tipico di chi vive alla frontiera. C’è anche una canzone che in Messico conoscono tutti, La maledizione di Malinche, che racconta dello sfruttamento delle popolazioni native da parte degli europei e dei nordamericani.

A marzo, a causa del Covid-19, la Casa del migrante ha dovuto chiudere le porte ai deportati che venivano lasciati oltre confine dall’Ice, l’agenzia americana dell’immigrazione. Durante la pandemia l’Ice ha continuato a deportare immigrati illegali nei loro paesi di origine contribuendo, come ha scritto anche il New York Times, a diffondere il contagio nei paesi del Sudamerica.

Tra i pochi deportati che si trovano ancora al centro c’è Bernardo, un ragazzo messicano arrivato poco prima della pandemia. Ora lavora come cuoco per i missionari. Aveva attraversato il confine la prima volta nel 2001 grazie ai cojotes, i trafficanti che aiutano i migranti a passare la frontiera. Al tempo aveva pagato tremila dollari per attraversare, oggi ce ne vogliono almeno diecimila.

Nel 2019, l’Ice scoprì che risiedeva illegalmente in Oregon da 18 anni. Tutta colpa di una multa per guida in stato di ebrezza presa anni prima proprio il 4 luglio, il giorno della festa dell’indipendenza americana. Dopo l’arresto, Bernardo è stato rinchiuso in un centro di detenzione a Las Vegas e poi deportato. In Oregon ha lasciato una moglie e un figlio ed è lì che vuole tornare. Spera di trovare presto un altro cojote per attraversare il deserto e passare il confine.

Le deportazioni mai finite

Foto Ap

Le deportazioni di immigrati illegali non sono un fatto nuovo. In otto anni di amministrazione Obama sono stati deportati circa due milioni e mezzo di illegali, tanto che il presidente venne soprannominato deporter in chief, il deportatore in capo. La situazione è peggiorata con l’amministrazione Trump che ha dato ordine di separare i figli dai genitori entrati illegalmente nel paese e ha introdotto il divieto di aspettare in territorio americano l’esame della domanda di asilo. Oggi quasi 600 minori aspettano ancora di essere ricongiunti ai genitori.

Il governo americano non sa bene come rintracciare le famiglie, i bambini sono perduti, insomma. E poi sono migliaia i migranti bloccati al confine in attesa che venga accolta o rifiutata la domanda di asilo. A Tijuana, oltre alla casa degli scalabriniani che ha aperto nel1987, ci sono moltissimi albergue per i migranti, tutti al limite della capienza.

Molti degli ospiti del centro sono arrivati con le carovane di migranti dall’Honduras, dal El Salvador e dal Guatemala, spesso seguendo la strada lungo i binari ferroviari. Fuggono dai cartelli e dalle maras, le gang criminali. Scappano da paesi che sono diventati narco-stati. Tra questi c’è una famiglia honduregna con la quale ho legato molto. Hanno due bambini piccoli dei quali mi prendo cura da quando sono arrivata qui. Il padre è ingegnere e la madre ha un master in finanza ma nel loro paese vivevano sotto continue minacce e sono stati costretti a fuggire.

Hanno già provato a passare il confine una volta, attraversando in gommone il Rio Grande ma sono stati catturati dalla migra (come loro chiamano l’Ice e la polizia di frontiera) e respinti. Mi mostrano il video del loro attraversamento. Mi dicono che vogliono trovare un altro cojote per entrare illegalmente.

Non nascondo che mi è difficile capire perché vogliano rischiare di nuovo la vita per passare la frontiera. Poi mi dico che per noi che viviamo in paesi sicuri è difficile capire fino in fondo le loro ragioni. Non voglio giudicarli. Eppure, alcune volte non riesco a non farlo. Il giorno dopo è la festa del Ringraziamento ma la famiglia honduregna è andata via di primo mattino. Il padre mi scrive che hanno tentato di attraversare di nuovo il confine e sono stati arrestati. Il terreno era accidentato ed era difficile camminare con i bambini. Si sono messi a correre ma la migra li ha raggiunti quasi subito. Dice anche che vuole tentare da solo la prossima volta. Lascerà la moglie e i figli in Messico e prima o poi riuscirà a passare il confine. Il Messico non è il loro paese e l’Honduras non è più la loro casa. L’America è l’unico futuro possibile.

Il centro 

La mia giornata al centro inizia sempre allo stesso modo. Al mattino lavoro all’accoglienza. Accolgo i migranti che arrivano con le carovane. Li faccio parlare con gli avvocati e gli psicologi del centro. Più tardi mi occupo dei bambini. Insegno loro l’inglese. La Casa del migrante è un posto accogliente. Ci sono sale per giocare e aule con i computer dove i ragazzi più grandi fanno lezione da remoto. Il problema sono i bambini più piccoli. Alcuni di loro a dieci anni non sanno ancora leggere e scrivere e la pandemia con le scuole chiuse ha peggiorato tutto. Come ogni anno i bambini hanno preparato i lavoretti per il Dia de los muertos, il Giorno dei Morti, che è una festa molto importante in Messico. Ho indossato una parrucca da clown e giocato con loro. È importante dar loro un senso di normalità anche se qui nulla è normale.

C’è un’altra coppia con la quale ho legato molto, Maria e Manuel. Sono salvadoregni scappati in Messico dopo essere stati rapiti da una gang. Nei giorni del sequestro lei è stata violentata e lui picchiato. Quando lo raccontano piangono ancora. Mi mostrano le foto dei lividi della violenza. Mi commuovo anch’io.

Appena liberi sono partiti su un autobus per Tijuana e ora come tanti altri sperano di riuscire a passare il confine illegalmente. I tribunali per le richieste di asilo sono chiusi dall’inizio della pandemia e non c’è possibilità per ora di entrare seguendo le vie legali. Molti migranti non riescono neppure più ad entrare in Messico dopo che il governo del presidente Andrés Manuel López Obrador e l’amministrazione Trump hanno firmato un accordo per bloccare le carovane dirette a nord.

Verso sera, ci mettiamo al lavoro in cucina. Maria e Manuel mi insegnano a preparare un piatto tipico delle loro parti che si chiama popusa, tortine di farina di mais ripiene di zucchine e formaggio. Li prepariamo per tutti i migranti della Casa. Centinaia di popusa impastate a mano perché al centro tutto si condivide, soprattutto la cultura. Parliamo della vita oltre il confine.

Come gli altri anche loro non conoscono la realtà americana, non sanno quanto sia difficile la vita anche lì. San Diego è dall’altra parte, questo è ciò che conta. Anche loro sono rimasti molto freddi di fronte alla notizia dell’elezione di Joe Biden. Non credono che le cose cambieranno in meglio. Non sanno che il presidente eletto vuole legalizzare undici milioni di illegali residenti nel paese. Quando glielo dico rimangono indifferenti.

I migranti che incontro qui vogliono raccontare le loro storie, sembra quasi che ne abbiano l’urgenza. Era diverso quando lavoravo in Nepal. Credo che raccontarsi, e quindi aprirsi agli altri, sia parte della loro cultura. In confronto ad altri migranti quelli del centro sono fortunati. In altri campi profughi al confine settentrionale del Messico la situazione è disperata. Ci sono migliaia di persone ammassate alla frontiera, spesso vittime di violenze, rapimenti ed estorsioni. Molti di loro sono stati deportati senza neppure passare per i tribunali americani. Espulsione immediata, come dice l’articolo 42 della legge.

Dopo il Messico? Andrò in Colombia. Migro anch’io, ogni volta, proprio come loro.»

© Riproduzione riservata