Il repubblicano Glenn Youngkin è stato eletto governatore della Virginia, stato storicamente conteso ma che nell’ultimo decennio è stato saldamente nelle mani dei democratici. Perfino Hillary Clinton nella disastrosa elezione presidenziale del 2016 era riuscita a portare nella colonna democratica la Virginia, grazie anche alla presenza di Tim Kaine, candidato vicepresidente che era stato senatore e governatore dello stato.

Youngkin, danaroso manager senza esperienza politica che ha passato la gran parte della carriera nel fondo di private equity Carlyle Group, ha battuto di due punti Terry McAuliffe, uno degli ultimi rappresentanti del declinante potere clintoniano che era stato governatore dal 2014 al 2018. McAuliffe ha guidato la campagna elettorale di Bill Clinton nel 1996 e quella di Hillary nel 2008 e in mezzo è stato a capo del Partito democratico.

In quel complicato groviglio di conflitti di interessi che è lo stato che si affaccia sulla capitale americana, McAuliffe non ha potuto nemmeno attaccare con le necessaria veemenza il passato di investitore rapace di Youngkin, avendo lui stesso fatto redditizi investimenti attraverso Carlyle Group.

Nella corsa per il posto di vicegovernatore ha vinto la repubblicana Winsome Sears. È la prima donna nera a conquistare uno scranno a elezione diretta nello stato del sud, ma il primato non è celebrato quanto lo sarebbe stato a partiti invertiti, vista anche la propensione di Sears a farsi fotografare imbracciando armi semiautomatiche.

Una vittoria di Trump

L’inaspettato successo repubblicano in Virginia è stata innanzitutto una vittoria di Donald Trump. Ma non nel senso che si potrebbe immaginare. Youngkin ha giocato nel modo più ambiguo possibile con l’onnipresente ombra del presidente. Prima si è rifiutato di dire esplicitamente che l’elezione di Joe Biden era regolare e legittima, cosa che ha ammesso soltanto una volta ottenuta la nomination repubblicana alle primarie. Poi ha tenuto Trump a distanza, ma non troppo.

Si è rifiutato di comparire accanto a lui agli eventi elettorali, ma non ha respinto il suo endorsement e ha incassato uno spot in cui Trump e Steve Bannon lanciavano la sua corsa, salvo poi prendere le distanze dal fatto che i due si riferivano all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio scorso come a una «protesta pacifica». Il neoletto governatore si è tenuto moderatamente lontano dalla retorica trumpiana, ha parlato molto di tagli alle tasse e si è concentrato meno sulla culture war che l’ex presidente ha reso permanente nel dibattito.

Pur essendo apertamente pro life ha criticato la legge sull’aborto in Texas, dicendo che da governatore non prenderà iniziativa sull’argomento e comunque preferisce il limite di venti settimane per l’interruzione di gravidanza. Non ha ricevuto l’endorsement della Nra, la lobby delle armi, e non ha flirtato con posizioni antiscientifiche sul Covid-19, pur esprimendosi contro green pass e obblighi vari sulla base di ragionamenti di tenore libertario.

Ha fatto rilievi critici sulla critical race theory, soprattutto in relazione al suo insegnamento nelle scuole, scatenando le ire incontrollate del fronte progressista. Per il resto ha fatto la campagna che tutti i repubblicani fanno in Virginia: ha dato con successo la caccia al voto rurale e suburbano, facendo leva sul crollo dei consensi di Biden, e ha lasciato alla sinistra i feudi urbani.

Effetti collaterali

È nella reazione spropositata dei democratici che va cercato il ruolo indiretto di Trump in questa vicenda. Sono stati soprattutto i progressisti, in una imponente campagna infarcita di personalità – a partire da Barack Obama – e benedetta dal presidente Biden, a evocare l’ex presidente, ispiratore di un candidato che McAuliffe chiamava «un Trump vestito bene».

Il democratico sconfitto ha perfino ammesso, negli ultimi giorni della campagna, che sarebbe stato meglio per i democratici che Trump avesse avuto accesso ai social, così da appropriarsi in modo più esplicito della campagna di un manager con il gilet in stile Patagonia, scevro dell’apparato di immagini e slogan nazionalpopulisti dell’ex presidente.

Youngkin è il prototipo del repubblicano credibile ed elettoralmente competitivo dell’epoca post Trump? È troppo presto per dirlo. Ma intanto si registra la flessione dei democratici, che da anni vivono innanzitutto dell’ossessione trumpiana.  Più che una vittoria del trumpismo, quella della Virginia è stata una sconfitta autoinflitta della sinistra, che ha erroneamente creduto di poter usare la figura di Trump a proprio vantaggio.

New Jersey e Minneapolis

Anche dal New Jersey non arrivano buone notizie per Biden e i democratici. La corsa fra il repubblicano Jack Ciattarelli e il democratico uscente Philip Murphy – un altro pezzo del vecchio establishment democratico –  è al momento troppo ravvicinata per proclamare un vincitore, ma il dato politico è chiaramente favorevole ai conservatori, che non credevano di poter competere.

Un’altra delusione progressista di questa tornata elettorale arriva da Minneapolis, la città dove lo scorso anno un poliziotto ha brutalmente ucciso George Floyd, tragedia che ha catalizzato movimenti di protesta razziale e richieste di riforma della polizia in ogni angolo d’America (e non solo).

Nella ultrademocratica Minneapolis l’elezione del sindaco era una vicenda interna all’unico partito dominante: nel sistema a preferenza multipla il primo repubblicano a comparire nella lista è Laverne Turner, con il 3,2 per cento dei voti.

Quello che contava era invece il referendum per sostituire il dipartimento di polizia con un organo “per la pubblica sicurezza”, primo passo verso una sostanziale riforma dell’ordine pubblico ispirata alla campagna per il definanziamento degli apparati di polizia. La riforma è stata respinta a larga maggioranza: il 56 per cento degli abitanti ha votato per mantenere il dipartimento di polizia.

Rimane per i democratici la consolazione della vittoria facile di Eric Adams a New York. Consolazione solo parziale: il nuovo sindaco è un ex poliziotto afroamericano con idee piuttosto conservatrici su sicurezza e ordine pubblico, tema che ha stradominato la campagna elettorale, sullo sfondo dell’inquietante aumento dei crimini violenti in città.

Midterm amaro

Per Biden la giornata elettorale è l’aperitivo di un’elezione di midterm, il prossimo anno, che promette dispiacere. È un dato fisiologico: il partito che si oppone al presidente si presenta al rinnovo della Camera e di un terzo del Senato è sempre favorito, ma attorno a Biden si stanno addensando alcune circostanze aggravanti.

Innanzitutto, i consensi: oltre il 50 per cento degli americani disapprova l’operato di Biden, un indice di sfiducia che lo proietta dalle parti della presidenza Trump, territorio nel quale nessuno pensava di trovare il suo successore. A questo va aggiunta la scomparsa di Kamala Harris, passata da grande promessa a grigia comparsa nel giro di pochi mesi.

Il problema sostanziale per l’agenda di Biden riguarda la maggioranza al Congresso, che a causa dei riottosi centristi democratici manca già de facto al presidente. La fronda di due senatori – Joe Manchin e Krysten Sinema – è stata sufficiente per dimezzare le ambizioni del riformismo rooseveltiano di Biden e per sbiadire i suoi sogni verdi.

Se quello che si vede dalle finestre di Virginia e New Jersey è una rappresentazione fedele del panorama politico americano, il secondo anno di Biden sarà anche peggiore del primo. 

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