Siamo immersi da così tanto tempo nel conflitto tra israeliani e palestinesi da considerarlo ormai uno stato perenne della nostra epoca. Una faglia che separa mondi in apparenza incompatibili, opposti per ideologie, identità e visioni dell’esistenza. Mai apparsa tanto invalicabile come in questi sei mesi di inaudita violenza.

Eppure, anche se avvolti nella nebbia di un ben fondato pessimismo, potremmo ancora scorgere una tiepida speranza se, per un attimo, voltassimo lo sguardo all'indietro, verso la radice autentica dello scontro in atto. Sgombrato il campo dalle bandiere impugnate nel nome di Dio e dai proclami del nazionalismo più estremista, dovremmo ricordarci che, in fondo, si combatte per un pezzo di terra.

Sullo stesso suolo

Una consapevolezza che aprirebbe immediatamente prospettive diverse. La guerra in nome della religione o dei grandi ideali non conosce compromessi: se non si riesce a sradicare la fede, occorre estirpare fisicamente i cervelli. La lotta per la terra, al contrario, non richiede una severità così definitiva: sullo stesso suolo si può benissimo vivere in due.

Oggi pare un pensiero eretico, al limite del paradosso, mentre l’odio pervade il cuore e la ragione di chi rivendica il possesso di un pugno di chilometri lungo il Mediterraneo. Eppure è un’idea semplice, penetrante, capace di aprire spiragli inediti: un invito a riconoscere quei luoghi come fonte di un medesimo “radicamento”, piuttosto che un diritto di “proprietà”. Quasi fosse un comune sentire, una stessa coscienza emotiva, che si può osteggiare, certo, ma che rimane punto di contatto.

Due grandi saggi 

Lo si intuisce dal pensiero di due grandi saggi del secolo scorso, vicini tra loro nel tempo e nello spazio. Il primo, Yeshayau Leibowitz, filosofo ebreo, ortodosso e sionista. Fermamente convinto che il legittimo proprietario della terra sia solo l’Onnipotente. Noi uomini, al massimo, la possiamo prendere in prestito.

Parole che si insinuano nei versi di Mahmoud Darwish, il più grande poeta nazionale palestinese, quando narra del medesimo affetto, del legame comune dei due popoli per lo stesso luogo: «Voi amate questo posto ed esprimete il vostro amore per le stesse piante e per gli stessi prati come se voi foste me, come se parlaste a nome mio».

Certo, anche il radicamento ha sfumature diverse: i poeti palestinesi vedono i pascoli dei loro genitori dove l’ebraismo vede il latte e il miele promesso a Mosè. Ma ciò che conta è che queste forme di affetto hanno entrambe il diritto di essere viste. Riconosciute nella loro autenticità.

Un legame su cui nessuno dei due popoli può vantare una primogenitura, né può impedire che l’altro lo possa esprimere, posando gli occhi sul medesimo prato con la medesima nostalgia. «Va riconosciuto il diritto di ognuno a raccontare la propria storia. E la storia riderà di entrambi. Per fortuna la storia è cinica, non ha tempo per gli ebrei e gli arabi. Del resto», conclude Darwish, «molti altri sono passati da quelle parti».

Riconoscere che si può legittimamente amare la stessa terra, senza che la storia che ci lega a “piante e prati” venga ridotta solo a patria, è un’intuizione profonda, piena di coraggio, intimamente sentita da Leibowitz e Darwish. Oggi più che mai abbiamo bisogno di altri come loro, forti abbastanza da sostenere la speranza. Nessuno dei due era così ingenuo da immaginare che bastasse condividere uno sguardo affettuoso al paesaggio per cancellare per sempre il peso di identità contrapposte da secoli.

Ma in questo sciagurato presente, le sole voci che si levano da entrambe le parti sono quelle di condottieri rabbiosi ed esausti che premono perché la guerra per la terra assuma sempre più le forme di un conflitto ideologico. Uomini che reclutano Dio e la storia per reclamare il proprio “diritto”, quando avremmo un disperato bisogno di voci nuove e sincere, capaci di mostrargli quale sia la realtà: quel “radicamento” per il quale muoiono in troppi sotto il loro comando è l’espressione di una bellezza condivisa che non appartiene a nessuno dei due.

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