Un mattone in una teca di vetro e delle fotografie di inizio novecento. Tutto quello che rimane del museo dedicato allo scrittore georgiano Ivane Machabeli è esposto in una delle migliaia di case nell’insediamento di sfollati interni di Tserovani. La signora che conserva il mattone e le foto dello scrittore mi dice che i russi hanno bombardato il museo due volte: una nel 1991-92, durante la prima guerra in Ossezia del Sud, e una seconda nel 2008.

In entrambi i casi il museo fu tra i primi bersagli del conflitto, perché la figura di Ivane Machabeli è un simbolo della cultura nazionale e della lingua georgiana, nativo di questa zona contesa. Il campo di Tserovani è oggi una cittadina a tutti gli effetti. Fu costruito subito dopo il conflitto, quando 26mila georgiani fuggirono dalla regione, lasciandola sotto il controllo degli osseti indipendentisti, di etnia e lingua iranica.

Il ministro degli Esteri era già Sergej Lavrov, e nel 2008 dichiarò che le truppe russe non avrebbero lasciato il paese «per molto tempo», sostenendo l’indipendenza di Abcasia e Ossezia del Sud, circa il 20 per cento del territorio della Georgia. In quattordici anni la maggior parte delle case e dei villaggi appartenenti georgiani sfollati sono stati sistematicamente distrutti, ed è stato proibito loro di ritornare nelle loro terre.

Il referendum

Dal 2011 il parlamento europeo considera le due regioni “occupate”, non riconoscendo il governo locale, constando operazioni di pulizia etnica e violazione di diritti umani. Oggi diverse basi russe si trovano nella regione di Tskhinvali (così la regione è chiamata dalla Georgia), e fino al 2019 era possibile solo per gli osseti passare il confine amministrativo e visitare i parenti negli insediamenti che poco a poco sono diventati permanenti. Ma da tre anni nemmeno questo è più possibile, creando dissenso soprattutto nelle aree di etnia mista, in cui molte famiglie sono state separate definitivamente.

«Il destino dell’Abcasia e dell’Ossezia del Sud non è deciso dai loro abitanti, ma dalla Russia», mi dice Zurab Bendianishvili, presidente della Coalizione per i diritti degli sfollati interni, che dal 2008 cerca di preservare i legami sociali tra chi è rimasto e chi no. «Il vero problema dell’Ossezia del Sud è la crisi economica in cui si trova e l’emorragia demografica che deve affrontare».

Dei 70mila abitanti in Ossezia del Sud, subito dopo la guerra d’agosto del 2008, oggi ne rimangono la metà. Tutti gli altri sono emigrati in Ossezia del Nord, dall’altra parte delle montagne caucasiche, nella Federazione russa, o emigrate altrove.

La maggior parte delle persone oggi è impiegato nell’amministrazione statale locale, questo non permette loro di essere critici nei confronti del governo, essendo per molti la fonte principale dei salari.

Con l’invasione dell’Ucraina circa 1.200 soldati originali dell’Ossezia del Sud sono stati chiamati a combattere dal presidente uscente Anatoly Bibilov. Ma ad aprile circa 800 soldati sono tornati nella regione a casa. Molti di loro in autostop e senza la loro uniforme.

Le truppe

Secondo Ruslan Totrov, giornalista russo dell’Ossezia del Nord, i russi volevano mandare le truppe di Tskhinvali allo sbaraglio contro linee ucraine bene armate, in “stile kamikaze”, riporta il sito Civil.ge, e per questo hanno disertato in massa e fatto dietro front.

Data la precaria situazione economica degli ultimi anni, il referendum è un’idea popolare tra gli osseti. Nelle ultime elezioni, non riconosciute internazionalmente, l’ex presidente Bibilov aveva promesso il referendum in caso di vittoria, per aumentare i propri consensi.

Ma la popolazione ha votato contro Bibilov, in parte per la sua decisione di chiudere i punti di transito nel 2019, impedendo di visitare famigliari e di accedere al sistema di salute pubblico georgiano.

Il nuovo presidente de facto Alan Gagloyev è stato eletto l’8 maggio. Gagloyev è un ex funzionario di basso rango del Kgb, e riguardo a una possibile annessione alla Russia attraverso referendum non si era pronunciato durante le elezioni, dicendo cautamente di attendere un segnale dal “partner strategico” russo, che è arrivato a pochi giorni dalla sua vittoria, e dall’annuncio di Finlandia e Svezia di entrare nella Nato.

I georgiani la chiamano “occupazione strisciante”, perché i soldati russi dal 2008 hanno mosso diverse volte le recinzioni e il filo spinato che divide campi agricoli e centri abitati. Questo spostamento insidioso della linea di confine non sembra essere casuale.

Gli oleodotti

In questa striscia di terra tra le montagne caucasiche passa l’oleodotto gestito da BP che da Baku, in Azerbaijan, arriva al porto di Supsa nel mar Nero. L’oleodotto oggi attraversa il terreno occupato dai russi, e questo è avvenuto con lo spostamento della linea di confine, esponendo le condotte al rischio di sabotaggio.

Dalla Georgia passa inoltre il gasdotto che collega le immense riserve di gas naturale dell’Azerbaijan all’Europa, passando dalla Turchia, e arrivando poi in Italia attraverso il Tap (Trans Adriatic Pipeline). Attivo dal 2021, il Tap è una delle fonti su cui l’Italia conta per compensare possibili interruzioni del gas russo.

La missione di monitoraggio dell’Unione europea (Eumm) è stata creata appositamente dal Consiglio dell’Unione europea per monitorare quella che viene chiamata borderisation, ovvero la costruzione di un confine fisico. «Durante i giorni della pasqua ortodossa è stato consentito il passaggio verso il resto della Georgia. Un’apertura temporanea avvenuta dopo continui sforzi da parte nostra e dell’Osce», dice il capo missione Marek Zzczygieł, capo missione dell’Eumm con sede a Gori, a pochi chilometri dalla regione occupata.

L’autostrada che da Gori porta a Tiblisi passa a centinaia di metri dal confine con l’Ossezia del Sud, ed è l’arteria che unisce la capitale al mare e al porto di Batumi. Per questo il timore di avere truppe russe stanziate qui è che potrebbero facilmente dividere il paese a metà in caso di invasione, isolando la capitale.

Sostegno all’Ucraina

A Tiblisi l’empatia della società georgiana verso l’Ucraina è molto forte. Le manifestazioni seguite allo scoppio della guerra sono state inequivocabilmente contro l’invasione e a favore dell’ingresso nell’Ue, spingendo il primo ministro Irakli Gharibashvili ad accelerare la richiesta all’Unione.

Combattenti georgiani volontari sono andati al fronte ucraino, e i corpi dei caduti sono accolti come eroi nazionali dalla popolazione. «Sappiamo molto bene cosa significa l’aggressione russa. Gli ucraini stanno combattendo anche per noi, per la nostra sovranità territoriale e per le nostre libertà», dice Nodar Rukhadze.

Aveva 11 anni quando la Russia bombardò la sua città. Oggi ne ha 25 ed è tra i fondatori dello Shame Movement, un gruppo di attivisti che ha mobilitato le manifestazioni pro-Ue, ma richiedendo maggiore controllo per i russi che stanno entrando nel paese, circa 30mila negli ultimi tre mesi. Questo flusso è visto con nervosismo da molti georgiani. «Tra i russi che arrivano non sappiamo chi ci possa essere», dice Nodar, alludendo al potenziale arrivo di personale militare e servizi segreti.

L’esito della guerra in Ucraina e il referendum di luglio saranno decisivi per sbloccare la situazione di stallo in Ossezia del Sud. Un rischio incombente è largamente percepito, e le ferite del 2008 potrebbero riaprirsi facilmente nel caso la Russia spingesse per un’annessione mascherata da decisione popolare.

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