Sul “dopo”, Netanyahu afferma che Israele si assumerà la responsabilità di garantire la sicurezza a Gaza per un «tempo indefinito». Parole certo non gradite a Washington, a Ramallah, nelle capitali mediorientali e no, dove le diplomazie si affannano per dare concretezza a una stabilizzazione della regione imperniata sulla formula “due popoli, due stati”, data per estinta e riemersa dopo il 7 ottobre.

Almeno fino agli inizi di questo tragico autunno, l’ipotesi era stata consegnata alla memoria delle cose che potevano essere ma non sono state; al novero delle soluzioni tramontate perché il “momento buono”, qualunque cosa significasse davvero una simile espressione, era passato; a uno scenario internazionale ormai profondamente “mutato”. Di fronte all’inimmaginabile la formula è tornata a materializzarsi: più per assenza di credibili alternative che per convinzione.

Dopo la cesura della guerra, di questa guerra capace di generare odi insanabili in entrambi i fronti, soluzioni diverse, minimizzanti o rischiosissime, sono evaporate. A partire da quella di uno stato binazionale, patria comune per israeliani e palestinesi: ipotesi che presupporrebbe non solo la messa in mora delle ali estremiste religiose di entrambi i campi ma anche un post sionismo e un post nazionalismo di cui, oggi, non si scorge traccia significativa, se non tra ristrettissime e trasversali élite, tanto illuminate quanto iper minoritarie. Condizionata, sin dagli albori, dall’inquietante fantasma del fattore demografico, in prospettiva favorevole alla popolazione di origine araba, una simile costruzione statale suscita istintivamente il timore di perdere la propria storia e identità.

I compromessi culturali, religiosi, sociali, prima ancora che politici, necessari per farla decollare si situano, per il momento, fuori da ogni concepibile orizzonte temporale. Quanto allo “stato unico religioso” – invocato con intenti opposti dagli islamisti di Hamas sull’intera Palestina e da messianici nazionalreligiosi e suprematisti ebraici sull’intera Israele biblica, i cui confini restano indeterminati ma sono ben più estesi di quelli internazionalmente riconosciuti – diverrebbe possibile solo nel malaugurato caso di vittoria di una o l’altra di quelle totalizzanti anime estremiste, oltre che per il crollo di ogni sistema di alleanze internazionale incapace di fronteggiare una simile deriva. Lo “stato unico religioso” implica, infatti, la “pulizia etnica” del popolo al quale si contende la terra, destinato per motivi di memoria e “santità” che si pretendono esclusive, a essere “mondato” da luoghi che non tollererebbero la sua presenza.

Soluzioni tampone

Scartate, dunque, le utopie binazionali e le strade legate a devastanti conflitti su base religiosa, da sempre regno di inimicizia assoluta e istanze irriducibili, restano in campo soluzioni tampone di breve termine, non di meno generatrici di deleteri effetti di lungo periodo. O quella, di forza, che mira a stabilire i rapporti precedenti il 2005 e tenta Netanyahu e i coloni che dovettero cedere su unilaterale decisione di Sharon: Gaza senza Hamas e la Palestina senza stato. Ipotesi evocata dalle stesse parole del premier, che lasciano trasparire la tentazione di un’esportazione del modello “cisgiordano” nella Striscia: in due delle tre aree della West Bank l’amministrazione civile spetta ai palestinesi e la sicurezza è di competenza israeliana. Sarebbe l’ennesima tappa della politica del “fatto compiuto” destinata a ricreare tensioni.

Se questo è il panorama, non resta che la soluzione dei “due stati”. Prospettiva che non sembrava più un miraggio dopo la stretta di mano tra Rabin e Arafat con la benedizione di Clinton. Una strada, quella che sembrava condurre a un seppur futuribile stato palestinese che vivesse accanto a Israele, interrotta dal nazionalreligioso Amir che assassina Rabin nel 1995, dal tatticismo dello stesso Arafat che, cinque anni dopo, al vertice di Camp David, rifiuta la pur parziale proposta del premier israeliano Barak, dalle vicende, interne e internazionali, che seguono o precedono quegli snodi decisivi.

Praticabilità

Ma che possibilità di attuazione ha quella soluzione se, in entrambi i campi, anche molti di quelli che la condividevano nutrono dubbi sulla sua praticabilità? Come è possibile uno stato palestinese, già senza continuità territoriale, profondamente marcato dalla presenza in Cisgiordania di oltre quattrocentomila coloni che non vivono più, come nei tempi pionieristici, in roulotte che fungevano da avamposti, ma in vere e proprie città, erette e popolate grazie a generosi finanziamenti pubblici che il loro movimento ha ottenuto dai governi di cui i partiti di riferimento fanno parte o con i quali hanno negoziato?

Presenza che si aggiunge a quella degli oltre duecentomila coloni residenti a Gerusalemme Est, destinata a essere, secondo gli eredi di Arafat, la capitale dell’agognato stato palestinese. Un territorio, sempre più piccolo, condizionato da una presenza israeliana difficilmente reversibile, se non a costi, politici e economici di enorme rilevanza. Costi che non solo la destra messianica ma nemmeno quella conservatrice di matrice Likud e persino parte delle forze che storicamente hanno accettato l’occupazione in nome della proposta “Pace contro Territori” legata al piano Allon, sembrano, per motivi diversi, disposte a ridiscutere. E anche se quel territorio fosse assegnato ai palestinesi, è pensabile che i coloni accettino?

È probabile, invece, che le loro avanguardie, convinte della loro missione divina, accelerare la Redenzione, reagiscano in armi, a un’eventuale evacuazione forzata. In uno scontro destinato a segnare profondamente la stessa natura di Israele, frutto di uno storico compromesso tra forze sioniste e religiose, che sul punto verrebbe meno. All’opposto, non riuscirebbe nemmeno una soluzione blanda, con la concessione di qualche limitato pezzo di territorio colonizzato ai palestinesi. Nemmeno quanti non si identificano con Hamas e il suo progetto di “Stato islamico dal Giordano al mare” la digerirebbero: tanto meno oggi.

Sull’onda del sentimento collettivo generato dalla guerra, non si può escludere una resa dei conti tra la generazione nazionalista più giovane e la vecchia, logora e corrotta leadership dell’Anp e la sua linea “consociativa”, che sbarrerebbe la strada a ogni intesa al ribasso. Insomma, se si vuole che la linea dei due stati decolli, non basta enunciarla. È necessario che entrambi i campi mettano ai margini i fondamentalismi di casa propria, così condizionanti. E che gli Stati Uniti impongano ai contendenti una soluzione che non possano rifiutare. Ma l’America ha oggi forza e convinzione per farlo, tanto più nell’anno della corsa presidenziale? Perché un simile scenario possa aprirsi, ci sarebbe bisogno di altri equilibri globali e forza visionaria. Una cosa è certa: le alternative alla soluzione dei “due stati” o non esistono o sono incubatrici del peggio.

 

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