La commissione parlamentare d’inchiesta sull’assassinio di Giulio Regeni, avvenuto tra il gennaio e il febbraio 2016, ha chiuso i suoi lavori con una relazione onesta che tuttavia sfiora appena due questioni oggi centrali alla politica estera di qualsiasi democrazia: quale debba essere il rapporto tra la salvaguardia degli interessi nazionali e la difesa dei diritti umani e come funzioni concretamente la relazione tra l’informazione e il sistema di potere quando sono in gioco questioni di rilevanza strategica.

Il primo punto conduce a dilemmi di difficile soluzione. Uno stato di diritto liberale può fare affari con una dittatura che sopravvive grazie alle camere di tortura? E può venderle di tutto, incluso armamenti? O invece dovrebbe sospendere quantomeno le forniture militari? E magari abbassare il livello delle relazioni diplomatiche in segno di protesta, anche se questo fosse contrario alle convenienze del paese?

Ritorsioni inefficaci

La commissione non si è posta domande così impegnative. Ma pur restando dentro i confini di un evento, l’assassinio di Regeni, che chiama in causa la relazione tra interesse nazionale e diritti umani solo perché i diritti violati riguardano un cittadino italiano, ha indirettamente affermato che il dovere di esigere giustizia non può essere cancellato dai nostri interessi.

Però pressioni e ritorsioni devono obbedire a un criterio di efficacia. Per esempio la scelta italiana di ritirare l’ambasciatore al Cairo andrebbe valutata in relazione ai risultati prodotti. Se questo consequenzialismo è convincente, lo è meno la tesi della commissione: la magistratura egiziana prestò una qualche collaborazione agli inquirenti italiani solo quando Roma richiamò l’ambasciatore.

È più probabile che il regime fornì nomi di alcuni spioni egiziani unicamente per rendere verosimile la propria versione, Regeni ucciso da cinque criminali comuni, opportunamente assassinati perché non potessero smentire (gli spioni in questione ebbero un ruolo nella strage).

Secondo l’organizzazione non governativa Intersos, l’assenza di un ambasciatore italiano in Egitto («attore primario nei processi di ricomposizione e di influenza nell’area») fu più un danno che un vantaggio: e infatti dopo due anni Roma fece marcia indietro.

Se adesso l’Italia minacciasse di annullare la vendita di navi da guerra all’Egitto, come chiede il deputato di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, il regime cederebbe? Che quelle fregate siano italiane, francesi o russe è abbastanza irrilevante agli occhi di un vertice militare che si sta giocando il collo: se riparte la ribellione, questa volta non avrà scampo.

E per quanto i generali siano divisi da feroci rivalità, sembrano consapevoli che se cominciassero a dividersi e ad accusarsi sarebbero finiti. Ciascuna banda deve coprire i misfatti delle altre. Oggi probabilmente l’unica possibilità rimasta all’Italia è ispirare una manovra congiunta di potenze occidentali per fratturare il regime. Ma al momento la possibilità è remota.

Diplomazia discutibile

Posto che non ha senso rinunciare inutilmente agli affari, ci sono questioni di stile e di sostanza che la commissione avrebbe fatto bene ad affrontare comunque. In questi anni abbiamo visto premier e ministri degli Esteri italiani che uscivano dagli incontri con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi raccontando di aver discusso soprattutto della collaborazione giudiziaria tra le due magistrature.

In realtà se l’argomento era stato trattato, certamente appariva nella scaletta solo per una questione di forma, essendo stato da subito lampante che al Sisi era parte rilevantissima del sistema che ha colpito il ricercato italiano.

Nondimeno mentire pareva indispensabile al nostro statista di turno per dimostrare di non aver appena incontrato un responsabile morale dell’omicidio di Regeni, quale in effetti al Sisi è, altrimenti non gli avrebbe chiesto un aiuto per scoprire gli assassini.

Sicché mentre fingevano di «pretendere la verità» (così come fatto da Matteo Renzi), i premier italiani si adoperavano per scindere la responsabilità del tiranno da un omicidio tipico del suo regime (sono centinaia gli oppositori egiziani morti sotto tortura in questi anni). Giuseppe Conte arrivò a sostenere di aver parlato di Regeni con il dittatore «guardandolo negli occhi», tecnica che a suo dire prima o poi avrebbe convinto l’altro a dargli retta.

La premessa di tanta ipocrisia è il silenzio con il quale media e parlamento avevano accolto le lodi sperticate di Renzi ad al Sisi al termine di tre incontri ufficiali.

Proclamando il presidente egiziano «salvatore del Mediterraneo», pochi mesi dopo che il golpista aveva fatto massacrare in piazza un migliaio di dimostranti quasi tutti inermi, il premier italiano in sostanza aveva detto: quando sono in gioco i nostri interessi, a noi dei diritti umani importa un accidente.

Ci si potrebbe chiedere se questo messaggio sia estraneo alla noncuranza opposta dal regime egiziano alle richieste dell’allora ambasciatore Maurizio Massari, quando, sparito Regeni, gli italiani cercavano affannosamente di sapere in quali mani fosse.

Cospirazioni e spie

Tenere fuori al Sisi dall’assassinio era anche l’effetto di una strana narrazione che si è affacciata in questi anni nei social e su tutti i maggiori quotidiani: il ricercatore appariva uno strumento inconsapevole dei servizi segreti britannici, che lo avrebbero manovrato attraverso il suo tutor accademico, la docente di Cambridge Maha Abdelrahman, descritta come militante dei Fratelli musulmani.

Insomma una storia di spie, o più esattamente una cospirazione britannica per soppiantare l’Italia nel rapporto privilegiato con al Sisi, magari sovrapposta a un complotto islamista contro lo stesso presidente. La commissione ha indagato questa ipotesi (tra l’altro ascoltando la professoressa Abdelrahman, che islamista non è affatto) e l’ha liquidata come totalmente falsa.

Ora sarebbe interessante scoprire chi e perché in questi anni ha alimentato la macchina della disinformazione. Per esempio chi fornì alla stampa ritagli di carte giudiziarie che proiettavano sospetti sulla tutor di Cambridge («l’università delle spie»); perché si spacciò la docente per integralista; se fu davvero spontanea l’ostinazione di anonimi che intervenivano nei siti anche cinque volte nell’arco di poche ore per rilanciare quelle bugie.

La favola che faceva del ricercatore «uno sprovveduto», chissà se al servizio di una manovra anti italiana, incontrò rapidamente i favori dell’opinionismo gaglioffo che scriverebbe qualsiasi cosa pur di stupire; della vasta schiera islamofoba, per la quale al Sisi è un dittatore amico, sterminatore di integralisti dunque meritoriamente filo occidentale; e di quell’Italia xenofoba cui danno fastidio il nitore e la nobiltà della figura di Giulio Regeni e della sua famiglia.

Ma se in questo consenso c’è solo la mediocrità e il cinismo diffuso nella società e nei media, è difficile sfuggire all’impressione che qualche centro di potere si sia adoperato per distogliere l’attenzione da al Sisi, giudicandolo un interlocutore prezioso per certi affari e certe linee di politica estera.

Beninteso, l’ipotesi di una manovra anti italiana non può essere esclusa. Ma in questo caso andrebbe scovato chi lasciò credere al regime egiziano che Regeni fosse una spia israeliana (per questo sarebbe stato torturato, riferì al governo italiano l’amministrazione Obama secondo il New York Times).

Se si trattò di un servizio segreto straniero, o se il sospetto fu invece lanciato da un segmento dello spionaggio egiziano in affari con potentati esteri. La verità definitiva potremmo forse scoprirla quando cadrà il regime di al Sisi.

Nel frattempo dovremmo chiederci se difendere i diritti umani, sia pure con saggezza e pragmatismo, non solo non sia contrario ai nostri interessi ma addirittura ci convenga. Così come, pensando al futuro, assai ci conviene che in Egitto le generazione giovani identifichino l’Italia non con i salamelecchi di Renzi ad al Sisi, semmai con la mobilitazione per quella verità su Regeni che al Sisi non potrà mai rivelare, essendone parte.

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