Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, cooperare nella risoluzione dei problemi internazionali e nella promozione del rispetto per i diritti umani. Sono questi gli obiettivi che, secondo quanto scritto nello statuto fondativo, si pone l’organizzazione delle Nazioni unite, oggi guidata dal portoghese António Guterres.

Dal giorno della sua nascita, avvenuta il 24 ottobre 1945 al tramonto del secondo conflitto mondiale, l’Onu ha svolto ben 71 missioni di peacekeeping in giro per il mondo, dispiegando centinaia di migliaia di soldati, pagando un costo molto alto in termini di perdite, con 4.173 vittime totali tra gli operatori alla fine del 2021. Ad oggi sono 193 i paesi che fanno parte dell’organizzazione e le operazioni attive sono 12, con più di 90mila unità militari, civili e di polizia impegnate. Le missioni di peacekeeping sono tuttavia solo una parte delle attività Onu, che agisce nei diversi contesti anche tramite le sue agenzie specializzate.

Un ruolo importante, innegabile per molti versi, che però è stato minato da diversi motivi. La Guerra fredda, scoppiata a pochi anni dalla sua fondazione, ha ostacolato l’efficacia dell’organizzazione. Così come sono emerse criticità nella struttura delle Nazioni unite, che probabilmente ne hanno limitato i poteri o accentuato il peso specifico delle diverse superpotenze mondiali, Stati Uniti in primis. Per esempio nel Consiglio di sicurezza, dove a causa del diritto di veto dei cinque membri permanenti – Cina, Francia, Regno Unito, Russia e Usa – non di rado si creano paralisi che rendono difficili azioni e interventi rapidi. Nell’organo in cui, invece, hanno spazio tutti gli stati membri, e cioè l’Assemblea generale, il voto di ogni paese vale uguale.

Sono in molti ad auspicare una riforma strutturale dell’Onu, che tenga in considerazione dei cambiamenti negli assetti internazionali rispetto allo scenario di quasi ottant’anni fa e delle difficoltà riscontrate dalle Nazioni unite.

Negli ultimi venti anni, per esempio, l’Onu ha dovuto affrontare diverse crisi internazionali, conflitti e guerre che in certi casi hanno palesato i limiti dell’organizzazione, impegnata in complicate missioni di mantenimento della pace che però spesso non portano ai risultati sperati. Tanto che le missioni vengono costantemente rinnovate e prolungate senza soluzione di continuità.

L’Onu in Africa

Il continente dove le Nazioni unite si sono maggiormente spese è stato ed è l’Africa. Delle 12 operazioni di peacekeeping in corso, la metà sono in territorio africano.

Una delle più importanti è la missione Monusco, nella Repubblica democratica del Congo, iniziata nel 1999 con la risoluzione 1279 e con il nome Monuc, con lo scopo di mantenere il cessate il fuoco firmato nel luglio precedente dal Congo con Angola, Namibia, Ruanda, Uganda e Zimbabwe.

In realtà la guerra congolese finì solo nel 2003. Dopo le prime libere elezioni del 2006 il contingente Onu è rimasto per rafforzare il paese e risolvere i conflitti ancora in corso in alcune province. Una missione che è cambiata nel luglio del 2010, quando è stata chiamata a tutti gli effetti Monusco, e dal 2013 viene rinnovata ogni anno dal Consiglio di sicurezza.

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Un’altra nazione africana dove l’intervento Onu è stato rilevante in questi ultimi vent’anni è il Sudan, sia a causa delle tensioni più o meno pacificate dopo l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011, sia per i conflitti etnici, religiosi ed economici presenti, specie nella provincia del Darfur. Numerose zone del paese sono state infatti teatro di violenze e attacchi, compiuti da milizie dell’allora regime di Omar al Bashir, dimissionario nel 2019 dopo un colpo di stato che ha avviato una transizione democratica, poi interrotta da un altro golpe militare nel 2021.

Dal 2003 il Darfur è attraversato da un conflitto che ha visto prendere le armi due gruppi di ribelli (poi rinominati Esercito di liberazione del Sudan e Movimento per l’uguaglianza) contro il governo sudanese e le sue milizie Janjaweed («diavoli a cavallo»), e che ha causato, secondo i dati Onu, più di 300mila morti e quasi tre milioni di profughi. Violenze che continuano a colpire, infatti, anche la popolazione civile, in balia dei reclutamenti di bambini soldato, di rapimenti e di stupri di massa. La flebile pace sottoscritta tramite il Darfur peace agreement (Dpa) nel 2006 non riuscì a fermare realmente il conflitto.

Anche per questo le Nazioni unite si sono mosse e dal 2007 hanno avviato la missione Unamid, in collaborazione per la prima volta con l’Unione africana, per proteggere i civili e facilitare gli aiuti umanitari nella regione. L’Onu, tramite il Consiglio di sicurezza, ha anche spinto la Corte penale internazionale a indagare sui massacri, che hanno portato alla condanna di Al Bashir e alcuni suoi ministri.

La missione è terminata nel 2020, anche se le Nazioni unite sono ancora presenti in Sudan, nella regione di Abyei con la missione Unisfa dal 2011, e in Sud Sudan. Qui, dopo l’indipendenza raggiunta con un referendum nel 2011, dal 2013 è in corso una guerra civile tra diverse fazioni etniche dell’esercito nazionale. Per questo l’Onu ha dato vita alla missione Unmiss, con lo scopo di proteggere i civili, monitorare i diritti umani e sostenere gli accordi di pace e l’assistenza umanitaria. 

Nello stesso continente, poi, sono attive anche le missioni Minusca nella Repubblica Centrafricana, la Minusma in Mali e la Minurso nel Sahara occidentale, attiva da oltre trent’anni. Era il 1991, infatti, quando il Palazzo di vetro mandò i caschi blu per assistere all’organizzazione del referendum che avrebbe dovuto decidere sull’indipendenza del Sahara dal Marocco voluta dal Frente Polisario. Una consultazione che, tuttavia, non è ancora avvenuta, motivo per cui le Nazioni unite continuano la loro opera in cerca di una mediazione tra le parti. 

A prescindere dalle missioni oggi attive, vale la pena ricordare il ruolo dell’Onu durante la crisi in Libia nel 2011, quando il fenomeno delle primavere arabe colpì anche il paese nordafricano, dove si scatenò di fatto una guerra civile tra i fedeli di Muammar Gheddafi e i gruppi ribelli. In quel frangente, il Consiglio di sicurezza adottò inizialmente una risoluzione proposta da Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti con la quale vennero imposte sanzioni e l’embargo sulle armi. 

Tuttavia, con il perdurare delle violenze, nel marzo 2011 lo stesso Consiglio autorizzò con la risoluzione 1973 i paesi della comunità internazionale a usare la forza militare, permettendo «tutte le misure necessarie» per garantire sicurezza, pace e protezione ai civili. Dopo quella risoluzione, che fu ampiamente discussa e che vide l’astensione di Russia e Cina, la Nato intervenne militarmente in Libia.

Dal settembre dello stesso anno, l’Onu ha avviato la Unsmil, una missione politica nel paese per aiutare la transizione democratica. Un’operazione che dal 2011 viene rinnovata annualmente, ma che – come si può osservare dalla situazione libica ai giorni nostri – stenta ad avere successo, in un paese sprofondato nel caos anche grazie al beneplacito dell’Onu.

L’Onu in America

Uno dei continenti, invece, dove le Nazioni unite sono intervenute meno è quello americano. Il ruolo dell’Onu in questo quadrante è stato caratterizzato dalla crisi ad Haiti. Il Consiglio di sicurezza nel 2004 avviò la missione di peacekeeping Minustah per assistere il paese nella transizione democratica dopo la caduta del presidente Aristide.

Missione conclusa nel 2017 e sostituita da un’altra più specifica, Minjusth, con focus spostato sul rispetto dei diritti umani e il consolidamento delle istituzioni. Un obiettivo che si è rivelato ambizioso vista la condizione attuale del paese, lontano da una reale stabilizzazione.

Ma il ruolo delle Nazioni unite ad Haiti è stato soprattutto fonte di polemiche e pieno di ombre. I soldati dell’Onu, infatti, avrebbero favorito inconsapevolmente la diffusione dell’epidemia di colera che ha colpito il paese dal 2010, per stessa ammissione dell’ex segretario generale Ban Ki-moon. Come se non bastasse, alcuni militari del contingente internazionale sono stati coinvolti in scandali di stupri e sfruttamento della prostituzione minorile.

L’Onu in Asia

Nel corso di questi ultimi anni l’occhio delle Nazioni unite si è posato in più di un’occasione anche sul continente asiatico. Come successo a Timor Est dal 1999, quando l’Onu è sbarcato sull’isola invasa dalle forze armate dell’Indonesia nel 1975.

Con la missione Untaet, l’Organizzazione cercò di guidare il paese verso la piena indipendenza da Giacarta, voluta dalla maggioranza della popolazione timorese ma osteggiata dall’esercito. Un’indipendenza raggiunta nel 2002, ma che negli anni a seguire non ha evitato il cessare completo di violenze e tensioni.

Sempre in Asia, teatro di un’altra missione Onu attualmente attiva è il confine tra India e Pakistan, nello stato di Jammu e Kashmir. Una missione, la Unmogip, risalente al 1949 e che oggi prevede il monitoraggio da parte di osservatori militari del cessate il fuoco del 1971 tra i due paesi, nonostante l’India di fatto non riconosca nessun ruolo ad attori terzi nella disputa territoriale con Islamabad.

L’Onu in medio oriente

Un capitolo a parte lo merita il medio oriente, dove l’Onu ha avuto a che fare con le più gravi crisi recenti, come in Iraq. Nel 2003 ha avuto luogo l’operazione Iraqi Freedom, guidata dagli Stati Uniti, con lo scopo di rovesciare il regime di Saddam Hussein, accusato da Washington e dal segretario di Stato americano Colin Powell di possedere armi di distruzione di massa in una riunione del Consiglio di sicurezza – divenuta poi tristemente famosa per la fialetta con presunte armi batteriche sventolata da Powell. La presenza di armi di distruzione di massa non venne mai accertata e anche una delegazione Onu non ne trovò riscontri. 

Ma dopo una risoluzione presentata e ritirata da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Spagna, il presidente americano George W. Bush avviò l’operazione militare. A nulla valsero gli inviti, gli appelli e le accuse dell’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, che un anno dopo parlò apertamente di «guerra illegale» e non conforme alla Carta delle Nazioni unite. La voce delle Nazioni unite rimase inascoltata e prevalse l’iniziativa e la volontà degli Usa. Un’operazione che doveva essere breve, che tuttavia – nonostante la fine dell’èra di Saddam Hussein – non portò alla stabilità del paese. 

In Libano l’Onu è presente dal 1978, quando il Palazzo di vetro inviò i caschi blu a seguito dell’intervento delle forze armate d’Israele nel paese contro alcuni gruppi palestinesi. L’obiettivo dei soldati delle Nazioni unite, con la missione di peacekeeping Unifil, era monitorare il ritiro degli israeliani e assistere il governo del Libano, sconvolto dalla guerra civile.

Una missione militare che si rafforzò nel corso degli anni, soprattutto dal 2006 dopo la crisi estiva tra Israele ed Hezbollah. Il Consiglio di sicurezza, infatti, aumentò il dispiegamento del personale di Unifil – oggi composto da più di 10mila unità e in cui l’Italia ha un ruolo imponente – con l’obiettivo di evitare ulteriori tensioni al confine.

I caschi blu, invece, non sono stati mandati in Siria, dilaniata a partire dal 2011 da una guerra civile, nella quale i gruppi di ribelli hanno provato a far cadere il regime di Bashar al Assad. Damasco ha infatti ricevuto in più di un’occasione la sponda decisiva della Russia di Vladimir Putin a livello internazionale.

Quando nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite si è parlato della situazione bellica e umanitaria in Siria, Mosca ha spesso posto il suo veto a risoluzioni che prevedessero interventi specifici delle forze Onu nel paese o contro il regime di Assad. In certi casi il veto russo ha addirittura bloccato aiuti umanitari transfrontalieri diretti ad alleviare le sofferenze della popolazione civile. Peraltro la Russia ha avuto un rilevante ruolo militare proprio sul territorio siriano tra il 2015 e il 2017 nella lotta contro lo Stato islamico. Da qui la solidità dei legami tra Damasco e Mosca.

Le risoluzioni che sono state approvate dall’Onu sulla Siria hanno riguardato più che altro impegni diplomatici sulla ricerca della pace e del cessate il fuoco, l’invio di aiuti umanitari o l’appello alla creazione di commissioni per appurare le responsabilità dei crimini di guerra.

In Yemen, invece, l’Onu ha cercato di mediare tra le parti coinvolte nel conflitto che insanguina il paese da più di dieci anni nell’indifferenza quasi generale. Una mediazione che però non ha portato a quasi nessun risultato di rilievo, mentre – tramite le agenzie – le Nazioni unite sono impegnate nell’assistenza umanitaria verso la popolazione civile.

L’Onu in Europa

Nel continente europeo le missioni Onu degli ultimi anni si sono concentrate in Kosovo e a Cipro. Nel paese balcanico autoproclamatosi indipendente dalla Serbia nel 2008 il ruolo delle Nazioni unite è stato particolare, fin dalla fine dell’intervento armato della Nato nel 1999, avviato tra l’altro senza l’avallo delle Nazioni unite. Con la risoluzione 1244 venne creata la missione civile Unmik per stabilizzare la regione e garantire sicurezza ai suoi abitanti, anche con compiti amministrativi nel paese. Un’operazione complementare alla Kfor dell’Alleanza atlantica, che invece ha carattere militare. 

A Cipro l’Onu è presente dal 1964 con la missione Unficyp per evitare ulteriori tensioni e combattimenti tra la comunità greco cipriota e la turca cipriota. Dopo l’intervento dell’esercito di Ankara e la divisione dell’isola, il contingente Onu ha l’obiettivo di presidiare la cosiddetta “linea verde” che separa la Repubblica di Cipro con la Repubblica turca di Cipro nord.

La marginalità e la perdita di influenza dell’Onu nelle crisi internazionali è stata confermata anche dalla più recente guerra in Ucraina. L’invasione russa ha riportato alla luce tutti gli interrogativi posti riguardo l’effettiva utilità dell’organizzazione. Già dopo l’annessione della Crimea nel 2014, la risoluzione del Consiglio di sicurezza sulla condanna alla Russia non era passata – prevedibilmente – proprio a causa del veto di Mosca, costringendo di fatto al silenzio e all’inazione le Nazioni unite.

Dopo il 24 febbraio, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha mandato un messaggio emblematico: se il Consiglio non riesce a fermare Mosca può anche dissolversi. Il Palazzo di vetro ha tentato invano di imporre un cessate il fuoco al Cremlino: Guterres si è recato in Ucraina a due mesi dall’inizio dell’invasione e a Mosca per un colloquio con la leadership russa.

Un’iniziativa che però non è piaciuta neanche a Kiev, che non reputa il segretario Onu “autorizzato” a trattare in nome dell’Ucraina. L’Assemblea generale ha invece approvato la risoluzione in cui si condanna la Russia, ma non essendo vincolante è un’azione dal valore politico più che legale. Quello che invece avrebbe il Consiglio, che ancora una volta è frenato dal veto di uno dei suoi membri.

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