Il 13 marzo 2013 Jorge Mario Bergoglio è diventato papa. Sul soglio pontificio per la prima volta nella storia si sedeva un gesuita e una figura proveniente dal continente sudamericano, dal cosiddetto sud del mondo. Una caratteristica risultata rilevante nel determinare la politica estera che il Vaticano ha portato avanti negli ultimi nove anni, sempre meno eurocentrica e più aperta verso le periferie del mondo.

Una connotazione confermata dalla scelta di papa Francesco di nominare come segretario di Stato il cardinale Pietro Parolin. Discendente della celebre scuola diplomatica vaticana, Parolin è stato il massimo interprete della “geopolitica bergogliana”.

«Aiutare a mettere da parte i dissapori della convivenza umana, favorire la concordia e sperimentare come, quando superiamo le sabbie mobili della conflittualità, possiamo riscoprire il senso dell’unità profonda della realtà». Per papa Francesco è questo il significato e lo scopo della diplomazia, come ha ricordato nel gennaio del 2022 durante l’incontro con i membri del corpo diplomatico della Santa sede. La politica estera vaticana si è prefissata l’obiettivo di “costruire ponti”, di mettere al centro i fenomeni migratori, la questione ambientale o il commercio di armi, uno dei più grandi ostacoli alla pace per Bergoglio.

In più di una circostanza, per quanto riguarda la politica internazionale, il pontificato di papa Francesco si è discostato dal passato, aprendo prospettive nuove per la Santa sede, come per esempio il rapporto con la Cina di Xi Jinping, a cui hanno fatto seguito le tensioni con Washington, le prime aperture alla Russia e alla chiesa ortodossa, prima che la guerra in Ucraina incrinasse i rapporti.

Vaticano e Cina

La svolta più importante presa da papa Francesco è quella del rafforzamento dei rapporti con Pechino, una relazione che con gli anni si è sviluppata sempre di più. Già a partire dalla coincidenza temporale in cui i due leader sono stati eletti: se Bergoglio è stato eletto il 13 marzo 2013, Xi Jinping è diventato presidente della Repubblica popolare il giorno successivo.

Fin dai primi mesi sono stati avviati contatti positivi dopo anni non semplici nelle relazioni tra la Santa sede e Pechino. Un segnale significativo arrivò da Pechino nel 2014, quando consentì per la prima volta a un papa di sorvolare lo spazio aereo della Cina per il suo viaggio apostolico in Corea del Sud.

Dialoghi proseguiti nel corso del tempo, soprattutto tra il 2016 e il 2017, che hanno portato alla firma dell’Accordo provvisorio il 22 settembre del 2018 nella capitale cinese, entrato poi in vigore un mese dopo. Un documento «frutto di un graduale e reciproco avvicinamento», come scritto nel comunicato vaticano, che riguarda la nomina dei vescovi in Cina. Una questione dirimente per far sì che tutti i vescovi cinesi, approvati dal governo cinese, siano in comunione con il vescovo di Roma, a cui spetta l’ultima parola sulle nomine.

Visto il suo carattere provvisorio, l’accordo è stato poi rinnovato nel 2020 e nelle prossime settimane dovrebbe essere nuovamente prolungato. Al momento, però, il contenuto ufficiale del testo è tenuto segreto sia dal Vaticano che dalla Cina.

Papa Francesco non ha nascosto di guardare in maniera particolare alla Cina e al continente asiatico. In un incontro con il cardinale filippino Louis Antonio Tagle nel 2015 ha infatti affermato: «Il futuro della chiesa è in Asia». Un concetto che ha trovato riscontro nei viaggi apostolici intrapresi finora da Bergoglio, che pur non recandosi a Pechino ha di fatto circondato la Cina passando per la Corea del Sud, lo Sri Lanka, le Filippine, la Birmania, il Bangladesh, la Thailandia e il Giappone.

Anche con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI erano stati aperti alcuni canali di comunicazione con Pechino, ma è stato l’approccio da gesuita di Francesco a spingere verso una ricerca più serrata delle relazioni con l’estremo oriente.

Le tensioni con gli Usa

L’apertura della Santa sede nei confronti della Cina, però, ha trovato anche feroci oppositori e attirato diverse critiche. Le più accese sono arrivate da Washington, rivale di Pechino nella competizione in atto tra grandi potenze, con cui le relazioni hanno avuto un brusco rallentamento.

Come dimostrato quando l’allora segretario di Stato americano Mike Pompeo durante una visita a Roma nell’ottobre del 2020, non venne accolto dal papa ma da Parolin. Una reazione alla dura accusa di Pompeo che aveva avvertito il Vaticano di non rinnovare l’intesa con Pechino.

Peraltro, in quel frangente, gli esponenti della Santa sede avevano accusato l’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump di voler «strumentalizzare» il papa nella campagna elettorale presidenziale.

Le frizioni con gli Usa

Il rapporto tra la chiesa e gli Stati Uniti è ancora solido, come dimostrano le visite istituzionali dei presidenti americani al papa, l’ultima quella di Joe Biden a fine ottobre 2021. Ma con papa Francesco la situazione si è complicata, vista anche la divergenza tra gli interessi della geopolitica vaticana del pontefice rispetto ai ragionamenti classici di una superpotenza nazionale.

Bergoglio, infatti, per le sue origini non euro-atlantiche e per la sua visione di “difensore degli ultimi”, non ha fatto breccia nelle amministrazioni statunitensi né tra i cattolici americani. Anche perché tra il 2016 e il 2020 alla Casa bianca sedeva Trump che invece ha aizzato quegli fetta ultra cattolica di destra nel paese che non vedeva di buon occhio le politiche e il pontificato di Francesco.

Divisioni interne al mondo cattolico che hanno perfino fatto emergere la possibilità di uno scisma tra la chiesa negli Stati Uniti e quella di Roma. Emblematiche furono le risposte del papa ai giornalisti durante i voli di andata e ritorno che lo hanno portato in Mozambico, Madagascar e Mauritius nel settembre 2019.

Gli venne consegnato un libro dal titolo Come l’America vuole cambiare papa, scritto da un giornalista del quotidiano cattolico La Croix, in cui sono raccontate le spinte dell’estrema destra cattolica verso un nuovo conclave. Papa Francesco rispose in maniera lapidaria: «Per me è un onore che mi attacchino gli americani». Come se non bastasse, sul volo di ritorno, parlando della possibile frattura interna, disse: «Nella chiesa ci sono stati tanti scismi. Non ho paura, ma prego che non ce ne siano».

L’incontro con Kirill

Un’altra direttrice importante della politica estera di papa Francesco riguarda il dialogo con le chiese ortodosse. Il miglioramento delle relazioni con gli ortodossi, infatti, è stato un obiettivo costante di Bergoglio.

Ne è una dimostrazione il viaggio del pontefice in Turchia nel 2014, in cui ha incontrato il patriarca ecumenico Bartolomeo I, con il desiderio di «proseguire il fraterno cammino» e «la completa comunione» con la chiesa ortodossa.

Altra conferma di questo impegno della Santa sede è avvenuta il 12 febbraio 2016, quando papa Francesco si è ritrovato a Cuba con Kirill, il patriarca di Mosca. Un incontro storico perché mai avvenuto, quello tra il vescovo di Roma e il rappresentante della cosiddetta “terza Roma”, il patriarcato con il maggior numero di fedeli ortodossi. Anche in quel caso, il vertice tenutosi nell’aeroporto dell’Avana fu il culmine di un lungo percorso precedente di avvicinamento tra le parti. Un evento accolto con grande soddisfazione dal patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I.

Un cammino di distensione che con la guerra in Ucraina si è bruscamente interrotto, a causa del totale appiattimento del patriarca di Mosca sulle posizioni del presidente russo Vladimir Putin. Il possibile incontro tra Kirill e Francesco, di cui tanto si è discusso, non è ancora avvenuto e sul dialogo con gli ortodossi di Mosca, al momento, è sceso il silenzio.

Nel corso degli anni, papa Francesco è stato protagonista di altre iniziative simili, a conferma di un dialogo maggiore con tutti gli ortodossi. Come nel dicembre del 2021, quando nel suo viaggio in Grecia ha incontrato Ieronymos II, l’arcivescovo di Atene. In quell’occasione il papa aveva chiesto perdono per gli errori compiuti dai cattolici nei confronti degli ortodossi e aveva parlato di “radici comuni” tra le due chiese.

A margine dell’incontro a Cuba, Francesco e Kirill hanno firmato una dichiarazione congiunta nella quale veniva rivolta un’attenzione particolare alle persecuzioni ai danni dei cristiani di tutto il mondo, e nello specifico in medio oriente e in nord Africa. «In Siria e in Iraq la violenza ha già causato migliaia di vittime», si legge nel testo, che ricorda «con dolore l’esodo massiccio dei cristiani dalla terra dalla quale cominciò a diffondersi la nostra fede». Sempre nel documento veniva sottolineato come il dialogo interreligioso «in quest’epoca inquietante» fosse «indispensabile».

Dialogo interreligioso

Un concetto espresso dal pontefice il 4 febbraio del 2019, in occasione del suo viaggio negli Emirati Arabi Uniti. Lì insieme ad Ahmad al Tayyib, grande imam di al Azhar e una delle figure più importanti nel mondo islamico sunnita, il papa ha firmato il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune”. Un testo in cui viene condannato il terrorismo, il fondamentalismo, le violenze e le persecuzioni compiute anche strumentalizzando la religione, mentre si stabilisce il diritto alla libertà religiosa.

Un passo importante nei rapporti tra la chiesa cattolica e il mondo islamico sunnita, inoltre, è stato compiuto dal papa con la visita in Iraq, nel marzo del 2021. Un viaggio dai contenuti religiosi e politici, in cui ha incontrato figure di rilievo sia cristiane che musulmane.

Migranti

Il primo viaggio ufficiale di papa Francesco all’esterno della diocesi di Roma ha avuto un forte carattere simbolico. Il pontefice si è recato a Lampedusa, l’isola in mezzo al mar Mediterraneo, dove approdano migliaia e migliaia di migranti. Era l’8 luglio 2013 e il papa denunciava la «globalizzazione dell’indifferenza» e l’abitudine a vedere la sofferenza degli altri, compresa quella dei migranti.

Sul tema dell’immigrazione Francesco ha posto più volte l’attenzione. Per esempio con i suoi viaggi sull’isola greca di Lesbo, dove sono ammassati migliaia di persone nei campi profughi in attesa del via libera per entrare in Unione europea. Il primo risale al 16 aprile 2016, insieme al patriarca Bartolomeo I e a Ieronymos, durante il quale il papa – dal campo profughi di Moria – ha lanciato un appello a «non perdere la speranza». Il secondo viaggio nell’isola del mar Egeo è stato compiuto da Francesco a cinque anni di distanza, nel dicembre 2021, e da lì è partita l’invocazione a fermare il «naufragio di civiltà», per evitare di passare dal «mare nostrum» al «mare mortuum». Frasi, poi divenute celebri, che rappresentano il messaggio di fondo di Francesco sui migranti.

Il rapporto con l’Ue

Proprio dalla questione migratoria passa il rapporto che il pontefice in questi nove anni ha coltivato con le istituzioni dell’Unione europea, spesso spronate da Francesco a fare di più. Tanto che in occasione dell’intervista a “Che tempo che fa” del febbraio 2022, il papa ha parlato di una gestione «criminale» da parte europea sull’accoglienza dei migranti.

E poche settimane dopo, durante il viaggio a Malta in aprile, ha dichiarato: «Il Mediterraneo ha bisogno di corresponsabilità europea per diventare teatro di solidarietà». Per poi sottolineare: «Non possono alcuni paesi sobbarcarsi l’intero problema nell’indifferenza degli altri. E non possono paesi civili sancire per proprio interesse torbidi accordi con malviventi che schiavizzano le persone».

Il “suo” Sudamerica

Da quando è il vescovo di Roma, Bergoglio non è mai stato in Argentina, sua terra natia. Ed è stato lui stesso a confessare che non ci tornerà, in caso di dimissioni dal soglio pontificio. I motivi del mancato viaggio in patria del papa non sono noti. Dal 2015 al 2019 a Buenos Aires il presidente è stato Mauricio Macri, con cui i rapporti non sono stati idilliaci. Inoltre sulla figura di Francesco in Argentina pesa ancora il suo discusso ruolo durante la dittatura della giunta militare tra gli anni Settanta e Ottanta.

Ma dal 2013 il papa ha viaggiato molto nel continente sudamericano, tra Brasile, Ecuador, Bolivia, Paraguay, Messico, Colombia, Cile, Perù e Panama. Durante la crisi presidenziale in Venezuela del 2019, invece, il papa ha tenuto un atteggiamento di dialogo, cercando mediazione tra il leader Nicolas Maduro e Juan Guaidò, nome appoggiato dagli Stati Uniti. Un’equidistanza che da molti in occidente è stata vista come una sponda a Maduro.

I nativi in Canada

L’ultimo viaggio apostolico di papa Francesco, prima di quello in Kazakhstan dal 13 al 15 settembre, è stato il volo in Canada lo scorso luglio. Una visita che ha avuto lo scopo di riappacificarsi con la comunità indigena. Un «pellegrinaggio penitenziale», come lo ha definito lo stesso pontefice, per chiedere perdono dei crimini commessi nelle scuole cattoliche tra l’Ottocento e il Novecento contro le popolazioni indigene. Ennesima prova di riguardo nei confronti degli “ultimi”.

Guerra in Ucraina

Una «guerra mondiale a pezzi» o frammentata, è quella che per papa Francesco si sta svolgendo ai giorni nostri. E di cui il conflitto in Ucraina è solo una parte. Le dichiarazioni del vescovo di Roma dopo l’inizio dell’invasione dell’esercito russo il 24 febbraio sono state molteplici, tutte condite dalla richiesta di un cessate il fuoco. L’invasione è stata «una pazzia» per il papa, che ha condannato la mossa di Putin, ma il pontefice ha anche invitato a «non ridurre a buoni e cattivi» la complessità della situazione, sottintendendo possibili responsabilità iniziali della Nato. Frasi che prevedibilmente hanno suscitato polemiche.

Come quelle sulla morte in un attentato di Darya Dugina, figlia di Aleksandr Dugin, definita una «povera ragazza» da Francesco a fine agosto. «L’Ucraina è profondamente delusa dalle parole del pontefice», ha risposto il ministro degli esteri di Kiev Dmytro Kuleba, convocando il nunzio apostolico in Ucraina.

Gli sforzi per la pace e per la mediazione da parte di Francesco – che vorrebbe andare a Kiev e a Mosca – nonostante tutto proseguono, anche durante la guerra in Ucraina che ha polarizzato qualsiasi argomento.


 

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