Al tribunale militare di Kinshasa si avvia a conclusione il processo lampo per gli omicidi dell’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam (Programma alimentare mondiale) Mustapha Milambo, occorsi in Congo il 22 febbraio del 2021. Inaugurate il 12 ottobre scorso all’interno del carcere militare di Ndolo, le udienze hanno visto alla sbarra cinque dei sei accusati di essere parte del commando che ha organizzato ed eseguito l’attentato costato la vita ai due italiani e all’autista congolese.

Si tratta di Shimiyimana Prince Marco, Murwanashaka Mushahara André, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu detto Ombeni Samuel e Issa Seba Nyani. Il sesto, Ikunguhaye Mutaka Amos detto Uwidu Hayi Aspera, è giudicato in contumacia perché latitante.

Gli imputati devono rispondere di «omicidio, associazione a delinquere, detenzione illegale di armi e munizioni da guerra». Originariamente, secondo le accuse, faceva parte del gruppo armato anche Mauziko Banyene, arrestato assieme agli altri e, non si è mai capito sulla base di quale motivazione, rilasciato a luglio scorso. L’uomo, tornato alla sua attività estorsiva nella zona di Mubambiro, alla periferia di Goma, Kivu del nord, all’indomani del rilascio, è stato immediatamente riconosciuto dalla popolazione locale e linciato a morte dalla folla perché considerato un pericoloso bandito.

Dubbi sugli arresti

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I presunti esecutori dell’agguato sono stati arrestati a gennaio scorso in circostanze che destano tuttora molti dubbi. Tra le perplessità principali, spicca il fatto che gli imputati fossero stati interrogati senza l’assistenza di legali. Dubbi anche usl fatto che a rivelare la svolta nelle indagini fosse stato il comandante di polizia del Nord Kivu, generale Aba Van Ang, un capo di polizia locale, senza che la notizia venisse confermata da Kinshasa.

I sei hanno confessato di aver progettato e condotto l’agguato a scopo estorsivo per una somma che all’epoca gli inquirenti congolesi stimavano in un milione di dollari (la procura di Roma, invece, dopo aver ascoltato i Ros di ritorno dalla missione a Kinshasa lo scorso luglio, ha parlato di una cifra drasticamente più bassa, 50mila dollari).

Il processo, però, a cui ha sempre presenziato il nostro ambasciatore Alberto Petrangeli, si è fin dall’inizio rivelato molto controverso. Gli avvocati della difesa, infatti, hanno ricusato il tribunale militare di Kinshasa per due motivi: i sei sono civili e non dovrebbero apparire di fronte a una corte militare, e sono tutti originari del Nord Kivu, luogo dove è avvenuto l’attentato, quindi dovrebbero essere giudicati da un tribunale locale.

Il giudice a capo del processo, Bamusamba Kabamba, ha rigettato le istanze della difesa dichiarando che fosse necessario un tribunale militare perché le armi e le munizioni utilizzate dal commando erano «da guerra» e che il trasferimento in Kivu avrebbe presentato il rischio di inquinamento del procedimento.

Gli imputati ritrattano le confessioni

Residents flee fighting between M23 rebels and Congolese forces near Kibumba, some 20 kms ( 12 miles) North of Goma, Democratic Republic of Congo, Friday Oct. 28, 2022. Hundreds have been killed and nearly 200,000 people displaced since fighting erupted a year ago. Congo has long accused Rwanda of backing the rebels. (AP Photo/Justin Kabumba)

Dato il via alle udienze, sono fioccate, una dopo l’altra, clamorose ritrattazioni da parte degli imputati. «Non ho mai toccato una pistola in vita mia – ha dichiarato in swahili Shimiyimana Prince Marco, indicato dal suo coimputato Amidu Sembinja Babu come colui che «ha sparato all'ambasciatore» nel corso dell’udienza del 16 novembre durata quasi quattro ore – non avevo nemmeno sentito parlare della morte di Luca Attanasio, ho firmato il verbale dopo essere stato brutalmente picchiato».

Lo stesso Amidu Sembinja Babu al momento dell’interrogatorio ha smentito il verbale nel quale era riportata la sua accusa nei confronti di Shimiyimana di aver materialmente sparato ad Attanasio: «Poiché non so né leggere né scrivere hanno riportato cose che non ho mai detto e firmato con il mio nome» ha riferito al magistrato Bamusamba Kabamba.

Nelle udienze precedenti anche gli altri imputati interrogati, Issa Seba Nyani e Bahati Antoine Kiboko, avevano negato ogni accusa a loro carico, sostenendo che le loro confessioni erano state estorte sotto tortura.

Da parte sua, l’accusa, come riferiscono fonti interne alla Farnesina, ribatte che i legali che seguono i cinque arrestati, nei mesi precedenti al processo non hanno mai presentato denunce per violenze nei confronti dei loro assistiti, né hanno mai chiesto lo stralcio per il fatto che nessun avvocato fosse presente ai primissimi interrogatori.

A gettare ombre sulla veridicità delle dichiarazioni dei cinque imputati, inoltre, c’è anche il fatto che negano di conoscersi, pur provenendo tutti dagli stessi villaggi del Kivu del Nord e svolgendo le stesse professioni. Insomma un processo molto rapido – dovrebbe chiudersi entro la fine di novembre – macchiato da molti dubbi sia sulle indagini, sia sull’impianto accusatorio e sullo svolgimento del processo stesso, che non lasciano tranquilli riguardo all’accertamento della verità.

Nel frattempo, la procura di Roma prosegue nel lavoro di accertamento nell’ambito del secondo filone d’inchiesta, riguardo il tentativo di sequestro a scopo di terrorismo di cui sono stati vittime i nostri connazionali. Il procuratore Francesco Lo Voi e l’aggiunto Sergio Colaiocco, dopo aver visualizzato i filmati consegnati loro dai Ros volati a Kinshasa a inizio luglio, con le confessioni e le dichiarazioni degli arrestati, stanno vagliando gli elementi delle indagini svolte dalle autorità congolesi.

Per avere un quadro complessivo, la procura di Roma, oltre che la fine delle udienze del procedimento in corso a Kinshasa, attende la traduzione dallo swahili e dalle lingue locali delle carte prelevate dai Ros a luglio, che fonti interne avevano previsto sarebbe stata ultimata entro la fine dell’estate. La lettura delle carte così come il vaglio attento dei filmati,  saranno fondamentali nella ricerca di elementi che potrebbero mettere in discussione le varie ritrattazioni dei cinque imputati e validare le prime confessioni.

La Farnesina e la famiglia parte civile

FILE - A park ranger loyal to the CNDP escorts visitors through the Virunga National Park, near the Uganda border in eastern Congo, Nov. 25, 2008. In November 2022, conservation park ranger Chief Brigadier Etienne Mutazimiza Kanyaruchinya was killed when 100 heavily armed men attacked a patrol post near the village of Bukima in Congo's North Kivu Province, making him part of the close to 200 environmental and land defense activists who were killed around the world in 2021. (AP Photo/Jerome Delay, File)

Il nostro ministero degli Esteri, a metà novembre, si è costituito parte civile, mentre la famiglia Attanasio, per conto del padre dell’ambasciatore, Salvatore, è sul punto di farlo. La costituzione da parte della famiglia non ha certo fini risarcitori ma solo l’obiettivo di entrare dentro al processo per cercare di comprendere come si sia sviluppato, come si stia svolgendo e quale sia l’impianto accusatorio complessivo.

Fonti vicine alla famiglia, infatti, fanno trapelare più di una perplessità riguardo lo svolgimento delle indagini, degli interrogatori e del processo stesso in Congo, in particolare riguardo i testimoni che non sarebbero stati sentiti. Nel complesso, le stesse fonti giudicano tutto il procedimento «quantomeno superficiale».

L’inchiesta sui funzionari Pam 

Sul fronte del primo filone d’inchiesta, quello che si è concluso a febbraio scorso con l’iscrizione nel registro degli indagati dei due funzionari del Pam Rocco Leone e Mansour Rwagaza per omesse cautele – denunciate, oltre che dai nostri inquirenti, anche dal rapporto ufficiale interno dell’Onu – si attende di sapere quale sarà la reazione dell’organismo delle Nazioni Unite.

Se cioè farà valere per i suoi due dipendenti l’immunità diplomatica o, come richiesto dalla procura di Roma che ha da poco chiesto il rinvio a giudizio dei due, permetterà lo svolgimento del processo. Con ogni probabilità, il Pam invocherà per i suoi dipendenti l’immunità diplomatica che viene riservata a funzionari dell’Onu accreditati in tutto il mondo.

La questione su cui ruota tutto è il mancato accredito dei due presso lo stato italiano che, secondo i legali dell’organismo Onu, non era necessario in quanto i due operavano in Congo.

Per i nostri inquirenti è precondizione per avere garantita l’immunità diplomatica: il Programma alimentare mondiale, infatti, ha sede a Roma e, come da accordi, per avere riconosciuta l’immunità dei suoi dipendenti, deve prima presentare richiesta di accreditamento presso il nostro stato. Si attende entro la fine dell’anno di capire come andrà a finire la vicenda, se il Gup accoglierà l’istanza del Pam e non darà luogo a procedere o se invece la rigetterà e si potrà andare avanti con il processo.

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