Lo storico inglese Orlando Figes ha scritto che la celebre massima di George Orwell, secondo il quale chi controlla passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato, è più vera in Russia che in qualunque altro paese del mondo. La reinvenzione del passato ha infatti caratterizzato diversi momenti della storia russa, come dimostrano le controversie tra occidentalisti e slavofili, i miti fondativi della “Terza Roma”, della “Santa Russia” e poi ancora le rivisitazioni elaborate dall’età sovietica ai nostri giorni.

Nel novembre del 2016 Vladimir Putin si inserì pienamente in questa consolidata tendenza con il suo intervento all’inaugurazione di una statua del principe Vladimir, quando definì il sovrano come il fondatore del primo stato russo, nato dall’unificazione di Russia, Bielorussia e Ucraina. L’unità storica di russi e ucraini fu anche il   tema centrale di un suo intervento nel luglio del 2021, ripreso poi con maggior vigore nel febbraio del 2022, poco prima dell’invasione dell’Ucraina.

Appellandosi a una discutibile tradizione, voleva così collegare la sua idea di restauratio imperii non a uno spirito di conquista, ma all’esigenza di reintegrare l’unità organica della Russia dopo la fine dell’Urss. Per il leader russo, come mette in luce il presidente di Memorial France Nicolas Werth in Putin storico in capo (Einaudi, 2023),  il controllo della memoria è infatti «una posta in gioco altissima», finalizzata a legittimare l’imperialismo postsovietico. 

Il ruolo di Memorial

Nella vulgata consacrata dal Pcus la Rivoluzione d’ottobre aveva inaugurato una nuova fase storica, in cui il Grande Terrore  rappresentava solo una macchia, che, denunciata da Krusciov durante il XX congresso, non poteva mettere radicalmente in discussione la struttura dogmatica del sistema. La situazione cominciò a mutare negli anni Ottanta con la glasnost’ gorbacioviana, quando fu data la possibilità alla società civile di intervenire criticamente nel discorso pubblico.

Un ruolo fondamentale ebbe Memorial, nata nel 1989 con lo scopo di fornire una documentazione alle vittime delle persecuzioni, che non potevano avere accesso agli archivi ufficiali, ancora rigorosamente blindati. Il cambiamento dell’assetto politico consentì però al parlamento di rendere noti i protocolli segreti del patto Ribbentrop-Molotov e a Gorbaciov di ammettere che il massacro di Katyn del 1940 era stato commesso dall’Nkvd e non dai nazisti. Dal 1991, con l’apertura degli  archivi, si avviò un processo che condusse gradualmente alla desacralizzazione dell’apparato ideologico marxista-leninista. In questa radicale rivisitazione storiografica Memorial (Premio Nobel per la pace nel 2022), il cui primo presidente fu il fisico Andrej Sacharov, si distinse per rigore scientifico e impegno civile.

L’anima russa

In diversi ambienti, negli anni Novanta, iniziò intanto a diffondersi l’esigenza di riscoprire quell’ “anima russa” che il Pcus aveva combattuto in ogni modo, perché considerata conservatrice e controrivoluzionaria. Il momento culminante di questo processo, in cui coesistevano contraddittoriamente il dispotismo illuminato di Pietro il Grande e di Caterina e la tradizione ortodossa, si ebbe nel 1998, sottolinea Werth, quando, a San Pietroburgo, Elstin, assistendo all’inumazione di Nicola II, affermò che lo Zar e la sua famiglia erano stati assassinati per volontà di Lenin. In quella circostanza il patriarca ortodosso proclamò Nicola II martire della fede.

In seguito alla crisi sociale prodotta dalle politiche liberiste di Elstin, viste in un primo momento come l’unica alternativa dopo il fallimento del socialismo, Putin si fece interprete dell’esigenza di coniugare l’eredità sovietica con la tradizione imperiale e religiosa russa. Nel dicembre del 2012  sostenne che bisognava “ristabilire i legami fra le diverse epoche di una storia unica, ininterrotta, millenaria”, nella convinzione che ciò potesse costituire un elemento unificante e un antidoto rispetto al disagio causato dalla glasnost’, dalla fine dello stato sovietico e dalle riforme economiche liberiste.

L’evento unificante fu  individuato nella Grande guerra patriottica, in cui il popolo aveva respinto l’invasore e difeso i confini, diversamente da quanto era accaduto nel 1918, dopo la sconfitta e la Pace di Brest-Litovsk.

Stalin diveniva così il capo carismatico che aveva restituito alla Russia quella grandezza che Lenin non era stato in grado di difendere e i gulag rappresentavano solo un incidente di percorso rispetto alla gloria della Grande guerra patriottica. Le ombre che con la glasnost’ erano calate sullo stalinismo si diradarono, per evidenziare come proprio Stalin avesse consentito all’Urss di sconfiggere il nazismo e divenire una grande potenza mondiale. La cosiddetta “denazificazione” dell’Ucraina rappresentava allora la prosecuzione di una missione salvifica.

Crimini contro la storia

Nel 2009 nasceva la Commissione presidenziale per la storia e nel 2012 la Società russa di storia militare. Si tratta di istituti che promuovono una dottrina ufficiale, uniformando i testi adottati nelle scuole e nelle università alle direttive del regime.

Le voci dissonanti furono messe a tacere e le ong che ricevevano finanziamenti dall’estero, schedate come “agenti stranieri”,  subirono rigide censure. Nel 2020, precisa Werth, venne inoltre inserito nella Costituzione un articolo (67.1) in cui si legge che la Federazione russa «protegge la verità storica». In nome di questa crociata per la verità, il 28 dicembre del 2021, una sentenza della Corte suprema decretava, alla vigilia dell’invasione della Crimea, lo scioglimento di Memorial, colpevole di aver presentato «un’immagine menzognera dell’Urss come stato terrorista».

La Federazione internazionale per i diritti umani (Fidh) ha considerato queste sentenze, secondo una definizione elaborata dal ricercatore belga Antoon de Baets, dell’università di Groninga, «crimini contro la storia». Si tratta infatti di «leggi repressive che hanno soppresso la libertà di espressione sulle questioni storiche».

Nuovi nemici del popolo

In questa pretesa di difendere la «verità storica» contro chi promuove «un’immagine menzognera dell’Urss», si avverte l’eco inquietante dei tribunali staliniani, che nell’articolo 58 del codice penale sovietico trovarono  gli strumenti più adeguati per perseguitare «i nemici del popolo».

Posizioni politiche non assimilabili all’ortodossia del partito furono allora  condannate come progetti controrivoluzionari tendenti «al rovesciamento, al sommovimento o all’indebolimento del potere dei soviet operai-contadini». Un reato, questo, che prevedeva «una misura di difesa sociale suprema, la fucilazione o la proclamazione di nemico dei lavoratori con confisca di tutti i beni».

Accogliendo questa eredità staliniana, le leggi putiniane «sulla memoria», scrive Werth, hanno consentito di condannare quanti hanno denunciato i  crimini dell’Armata rossa nei confronti della popolazione civile tedesca nel 1945 o semplicemente ricordato che il procuratore generale dell’Urss al processo di Norimberga, Roman Rudenko, aveva svolto un ruolo fondamentale nei tribunali del Grande Terrore.

In questo clima, in cui lo stile di una neolingua totalitaria è stato adottato anche dalla ricerca accademica, non stupisce, commenta Werth, che Putin possa  autoproclamarsi, a pieno titolo, «storico in capo».


Putin storico in capo (Einaudi 2023, pp. 96, euro 12) è un libro di Nicolas Werth

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