«Cos’è che non può mai essere perdonato?», domanda l’intervistatore. La telecamera stringe lentamente sul sorriso enigmatico del presidente russo. «Il tradimento», risponde Vladimir Putin. Il video risale al 2018, ma è tornato a circolare sulle televisioni e suoi social russi sabato scorso, mentre i soldati di Wagner marciavano su Mosca. Nonostante Putin abbia definito la loro azione una «pugnalata alle spalle», le accuse nei confronti del gruppo paramilitare e del suo leader, Evgenij Prigožin, sono state archiviate. Wagner sarà ridimensionata, perderà gli armamenti pesanti e finirà relegata in Africa o chissà dove. Ma i suoi uffici hanno riaperto in tutto il paese e Prigožin, per quanto ne sappiamo, è vivo e vegeto in Bielorussia. Quello di Prigožin non è l’unico caso in cui Putin si è dimostrato nei fatti molto più clemente che a parole. Nella Russia post invasione dell’Ucraina esiste un’ampia zona grigia dove impeccabili credenziali di militarismo e di iperpatriottismo garantiscono una sorta di immunità anche in caso di critiche ai piani più alti del Cremlino. «Nessun nemico a destra» sembra che sia la filosofia che guida il presidente russo: un altro segnale che il suo potere è meno monocratico di quanto si pensi.

L’ascesa degli iperpatrioti

La trasformazione della cosiddetta “operazione militare speciale” in una guerra di logoramento ha portato all’ascesa di una nuova generazione di personaggi nella Russia di Putin. Si tratta di attivisti, avventurieri, giornalisti e blogger più o meno indipendenti che su Telegram, YouTube e altri social ha iniziato a raccontare la guerra fornendo spesso resoconti più dettagliati ed affidabili di quelli dei canali ufficiali. Molti sono “milblogger”, o “blogger militari”, personaggi come Semyon Pegov, noto con lo pseudonimo di Wargonzo, o come il canale Telegram Rybar. I loro reportage e i loro aggiornamenti sono spesso estremamente accurati per via dei contatti che hanno sviluppato all’interno dell’esercito. Non con gli altri comandi, con l’eccezione di alcune figure molto popolari, come il generale Surovikin, ma in genere con gli ufficiali di truppa. Colonnelli, maggiori e capitani li accolgono al fronte, inviano loro video di azioni militari e vengono ricambiati con donazioni di equipaggiamento e video di propaganda.

La qualità dei loro contenuti e i loro seguito rivaleggia con quelli dei media ufficiali e per questo Putin li tiene in gran conto. Come ha spiegato all’Afp Lev Gudkov, presidente del gruppo Levada, l’ultima società demoscopica indipendente del paese «il Cremlino ha bisogno del supporto degli ultranazionalisti all’operazione militare speciale».

Limiti alle critiche

La ritirata da Kiev della scorsa primavera e le vittoriose offensive ucraine dell’autunno hanno dimostrato che gli ultranazionalisti non sono semplici strumenti nelle mani del regime, ma una forza con la sua agenda e una sua autonomia. Dal patriottismo acritico delle prime settimane sono passati ad attacchi sempre più sferzanti nei confronti del modo in cui veniva condotta la guerra. Quelle che muovono sono critiche simili a quelle che hanno spinto Prigožin ad ammutinarsi: il ministro della Difesa Sergei Shoigu e la maggior parte dei generali sono dei corrotti incompetenti, il sistema è marcio dall’interno e avrebbe bisogno di un violento repulisti, il Cremlino dovrebbe smettere di combattere “in guanti bianchi” e mobilitare per il conflitto una parte molto più significativa dell’economia e della società. Fino a non molto tempo, gli ultranazionalisti sembravano rispettare la regola non scritta che qualunque critica era accettabile, purché non toccasse Putin o le ragioni del conflitto. Ma ultimamente, anche questo limite sembra saltato. Subito prima di lanciare la sua insurrezione, Prigožin aveva definito false le motivazioni ufficiali che hanno spinto all’invasione, mentre, Igor Girkin, forse il più famoso del gruppo, ha recentemente scritto che in Russia «il pesce puzza dalla testa».

La reazione

Putin, invece di farli arrestare, li ha accolti al Cremlino e lo scorso 13 giugno ha risposto per oltre un’ora alle domande di una dozzina dei più agguerriti membri della comunità. Secondo lo scienziato politico britannico Mark Galeotti, questo interesse di Putin per gli ultranazionalisti deriva dalla consapevolezza che si tratta della punta dell’iceberg di un fenomeno più ampio. Figure come Girkin e gli altri «agiscono anche come portavoce di corpose fazioni all’interno dell’apparato militare e di quello della sicurezza. Penso che la paura nel reprimerli sia, prima di tutto, di farne dei martiri. E, secondo, di perdere un’occasione per capire quali sono le loro preoccupazioni». Dopo l’insurrezione di Wagner, il loro ruolo degli ultranazionalisti sembra divenuto ancora più chiave per il regime. L’esercito regolare ha reagito con apatia al colpo di mano di Prigožin. Migliaia di soldati hanno lasciato le loro basi venissero occupate senza offrire alcuna resistenza. In pochi hanno scelto di seguire Prigožin, ma quasi nessuno ha messo la propria vita a rischio per proteggere Shoigu. Significa che la rabbia della truppa che segnalano i milblogger è reale e che il Cremlino non può ignorarla. Come ha ricordato il presidente della Duma e fedelissimo di Putin Vyacheslav Volodin: «Il nostro paese non è mai stato sconfitto sul campo. Tutti i nostri problemi sono sempre nati da divisioni interne». Pronunciate all’inizio del conflitto, queste parole dovevano essere un dichiarazione di imbattibilità. Oggi, ricordano a Putin i rischi che corre a causa del militarismo che lui stesso ha liberato. E al resto del mondo che il suo successore potrebbe essere persino peggio di lui.

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