Ogni quattro anni, per un mese sembra che in tutto il pianeta non si possa parlare che di un argomento. Non è stato sempre così, c’è stata un’epoca in cui la Coppa del mondo riceveva un’attenzione molto inferiore alle olimpiadi, in particolare, ma ormai la convergenza di interessi politici, economici e sportivi intorno alla manifestazione che designa la più forte nazionale è senza paralleli. L’edizione 2022 in Qatar solleva però anche interrogativi sulla coerenza della scelta di concedere a un paese che è severamente criticato sul piano dei diritti umani un’opportunità per migliorare la propria immagine grazie al calcio.

L’origine della Coppa del mondo

I commensali non potevano sospettarlo, ma probabilmente il pranzo servito all’Eliseo il 23 novembre 2010 ha cambiato la storia del calcio. Ospiti del presidente Sarkozy, Platini e il principe ereditario del Qatar Sheikh Tamim bin Hamad Al Thani hanno discusso dell’imminente voto per assegnare l’organizzazione della Coppa del mondo 2022.

Determinato ad affermarsi sul piano internazionale, uscendo dall’ombra dell’Arabia Saudita, il petrostato fronteggiava la candidatura degli Stati Uniti, cui Platini aveva più o meno già promesso i quattro voti europei. Ma nove giorni dopo a Zurigo, fu il Qatar a prevalere, grazie al sostegno della Uefa, diventando il primo paese arabo a ospitare la principale manifestazione sportiva al mondo, nonché il primo a partecipare per la prima volta grazie al privilegio della qualificazione automatica.

Curiosa coincidenza, nei mesi successivi il figlio di Platini ha iniziato a lavorare per una società sportiva dei qatarioti e Qatar Airways ha piazzato un ordine per cinquanta Airbus. La complessa vicenda avrebbe finito col costare lo scalpo al campione francese tanto amato dall’avvocato Agnelli. Se è banale constatare che molto, quasi tutto, è cambiato dal 1930, quando l’Uruguay aveva accolto la prima Coppa del mondo cui per motivi di budget avevano potuto partecipare solo quattro squadre europee, non bisogna sottovalutare le motivazioni politico-economiche della sua creazione.

Militante cristiano-sociale, giornalista fondatore de La Revue, Jules Rimet vedeva nello sport a livello professionistico uno strumento per lenire le sfortune morali e fisiche dei più poveri e facilitarne l’ascesa sociale. Non quindi un vago angelismo, ma un pragmatismo della solidarietà che aveva trovato il suo sbocco nella creazione del Red Star, il club del nord industriale di Parigi, nella partecipazione alla nascita della Fifa e nell’esercizio della presidenza della Fédération française de football prima e della Fifa poi, dal 1921 al 1954.

Rimet e un altro francese, Henry Delaunay, hanno superato l’opposizione di chi voleva limitarsi a consacrare campione del mondo la squadra di dilettanti che vinceva il torneo olimpico e hanno trovato proprio nel paese che aveva trionfato ad Anversa 1924 e a Stoccolma 1928 il luogo ideale per organizzare l’edizione inaugurale. Oltretutto il comitato olimpico internazionale aveva depennato il calcio tra gli sport per le olimpiadi di Los Angeles nel 1932, alla luce della scarsa popolarità negli Stati Uniti. L’Uruguay, che era incontestabilmente la squadra più forte del momento e che infatti aveva prevalso in finale con l’Argentina, celebrava nel 1930 il centenario dell’indipendenza e assicurava un pubblico numeroso (alla fine più di 500mila spettatori, a fronte di una popolazione di meno di 1,9 milioni) e il finanziamento delle spese di viaggio.

Erano passati appena otto mesi dal crash di Wall Street quando Rimet è giunto a Montevideo portando con sé la statuetta destinata al vincitore, che rappresentava Nike, dea della vittoria. Da allora, 78 paesi, delle 211 federazioni che compongono la Fifa, hanno disputato almeno una volta la Coppa, con il Brasile il solo a non avere mancato neanche un’edizione. Quasi due terzi delle squadre europee hanno partecipato almeno una volta, per un totale di 245 partecipazioni, e con l’allargamento a 48 squadre nel 2026, dalle attuali 32, ci saranno più opportunità per Asia e Africa.

Effetti positivi dell’evento

Ogni mondiale è stato l’occasione per celebrare successi e ambizioni della nazione ospite, un formidabile festival del nazionalismo nei suoi aspetti più inquietanti (Italia 1934, Argentina 1978), ma anche in quelli più coinvolgenti (la movida spagnola nel 1982 o le vuvuzela sudafricane nel 2010). Sembra difficile crederlo nel 2022, ma Russia 2018 è servita a mostrare l’immagine di un paese aperto, libero e gioioso.

Sul piano delle relazioni internazionali, la Coppa del mondo offre opportunità per distendere le tensioni, sia pur solo per 90 minuti – come nel 1998 quando si sono incontrati Stati Uniti e Iran, che ha vinto con un allenatore che, come migliaia di persiani, era fuggito in California dopo la Rivoluzione islamica. Ancora più carica di significato l’edizione 2002, giocatasi in Corea del sud e Giappone, a simboleggiare l’armonia tra due paesi con un difficile passato in comune. Per questo l’edizione 2022 riveste particolare interesse, al di là delle circostanze che hanno circondato l’attribuzione al Qatar.

È infatti la prima volta che si gioca in medio oriente, in un paese che non si è mai qualificato per il torneo, che ha un ranking Fifa così modesto (anche se il record negativo in questo senso lo detiene tuttora la Russia, che nel 2018 aveva il peggiore ranking tra tutte le squadre presenti), in inverno boreale e prevalentemente in notturna, a causa delle temperature elevate.

Il calcio già fa parte della strategia di national branding del paese, e un mega evento può ulteriormente aumentare il soft power del Qatar e della famiglia reale, ma allo stesso tempo eleva il livello d’attenzione verso questioni sensibili come i diritti umani, il trattamento dei lavoratori stranieri e la kafala, la tutela da parte di un nativo cui sono sottoposti gli immigrati. Che sia per convinzione, o per opportunità, in preparazione della Coppa ci sono stati gesti concreti per meglio combattere il lavoro minorile e proteggere gli immigrati consentendo loro di cambiare liberamente lavoro. Se questa dinamica si conferma, e non si limita a una forma di sportswashing, si può riconoscere che la Coppa, e più in generale i grandi eventi sportivi, possono avere ricadute positive che non si dissipano rapidamente. Si tratta di una questione cruciale nel momento in cui sono soprattutto le autocrazie a candidarsi a ospitare il Mondiale, la Cina per prima nel 2030 o 2034.

Un altro risultato positivo dei grandi eventi, e non meno importante, è la diminuzione dei suicidi durante la Coppa del mondo – di più del 10 per cento in Francia nel 1998 tra i maschi di 30-44 anni, ancora superiore all’indomani delle partite dei Bleus – a riprova che il senso di appartenenza alla comunità che essa genera è un antidoto all’anomia durkheimiana.

Che il calcio influenzi il sentiment di una comunità è dimostrato anche dagli effetti statisticamente significativi che i risultati in Coppa del mondo hanno sui mercati finanziari (chiaramente nella direzione attesa, ovvero vittorie che creano euforia e viceversa).

I campionati continentali

L’Euro 2020, disputatosi nel 2021 a causa del Covid-19, resterà nella storia del calcio, ma anche dei grandi eventi, come un ambizioso progetto per costruire ponti (era lo slogan ufficiale) tra popoli e nazioni. Si è infatti disputato in undici città, tra cui Londra, dove, un lustro dopo il referendum sulla Brexit, l’Italia ha battuto i padroni di casa in finale.

Ma in realtà, al di là del simbolismo e della complessità logistica dell’esercizio, a sessant’anni dalla prima edizione del campionato, la scelta ha corrisposto a una motivazione estremamente terrena: quella di non costruire nuove infrastrutture per un evento il cui costo è lievitato nel tempo, tanto che nel 2012, quando è stata scelta la sede per il 2020, l’unica candidata seria era la Turchia. Non a caso le edizioni 2000, 2008 e 2012 della grande kermesse del calcio europeo si erano disputate in ciascuna occasione in due nazioni (rispettivamente Belgio e Olanda, Svizzera e Austria e Polonia e Ucraina), in modo da calmierarne il costo.

È stata l’America Latina a organizzare la prima competizione regionale nel 1916, data non casuale, quella del centesimo anniversario dell’indipendenza argentina. La storia della Copa América, vinta da ben otto nazionali diverse, riflette quella del continente, tra limiti organizzativi (la formula è cambiata spessissimo) ed episodi di violenza, ma anche prodezze sportive. Ha perso però progressivamente prestigio, perché l’aumentata frequenza l’ha resa un appuntamento quasi banale agli occhi dei tifosi, mentre i club europei dove gioca la stragrande maggioranza dei giocatori latinoamericani (addirittura 31 sui 31 che hanno disputato la finale 2021) contestano l’obbligo di mettere a disposizione i propri stipendiati. Problemi che in via generale non riguardano gli Europei, che sono sempre di più un mini-Mondiale, anche dal punto di vista dei premi: nel 2021, ogni team ha ricevuto una fee di partecipazione di 9,25 milioni di euro, mentre 34 sono andati al vincitore (rispetto a 11 e 57, rispettivamente, in Qatar).

Ma al di là del valore sportivo della manifestazione, la differenza la fa il simbolismo: l’euro è sempre di più una vera rappresentazione spaziale e temporale dell’europeismo (allargato, dato che la Uefa ha 55 membri) che non si esaurisce nelle direttive di Bruxelles, né negli ideali di un’élite sempre meno rispettata, mentre la Copa América non riesce a diventare simbolo di un’integrazione dei popoli latinoamericani.

La terza competizione in ordine d’importanza è la Coupe d’Afrique des nations (Can). In Africa il professionalismo è permesso solo dal 1980 e le sponsorizzazioni dal 1984. Si tiene con cadenza bisannuale e attira sempre di più l’attenzione di telespettatori, sponsor e club europei alla ricerca di nuovi talenti, anche se la sua organizzazione complessa testimonia la molteplicità degli interessi e delle criticità.

Da un lato, l’instabilità quasi cronica del continente, che ha portato a frequenti cambi last minute di sede (ad esempio la Libia era stata scelta per ospitare la Can nel 2013 e nel 2017, ma in entrambi i casi si trovava in piena guerra civile ed è stata costretta a rinunciare); le debolezze infrastrutturali, che obbligano per esempio le squadre a transitare dagli hub aerei europei o del Golfo per muoversi da un paese africano all’altro; la dipendenza pressoché assoluta dal calcio europeo, dove gioca la quasi totalità dei convocati, che periodicamente crea contrapposizione tra le federazioni africane e i club, restii a mettere a disposizione i giocatori nelle settimane cosiddette “di tregua” in cui i campionati lasciano il passo alle nazionali, e ancora più durante la Can quando i campionati non si fermano (nel 2022 erano 37 i convocati provenienti dalla sola Premier).

Ci sono inoltre frequenti problemi di governance, che hanno indotto la Fifa a commissariare la Caf, una decisione che però è stata tacciata di neo-colonialismo. D’altro lato, in un continente in cui le frontiere sono state per lo più tracciate con il righello dai diplomatici e dai militari europei alla Conferenza di Berlino e dove pertanto l’identità nazionale è spesso artificiale e fragile, il calcio si è incaricato di fare del nation-building. Un esempio recente è offerto dalla Costa d’Avorio, che ha vissuto una sanguinosa guerra civile tra nord musulmano e sud cristiano, trovando una sintesi identitaria grazie agli Elefanti del nordista Yaya Touré e del sudista Didier Drogba.

Più in generale, risultati come le vittorie del Camerun sull’Argentina nel 1990 e del Senegal sulla Francia nel 2002 hanno dato un’immagine positiva e vincente dell’Africa. Con un ardito ma stimolante parallelo con la fuga dei cervelli (il brain drain), Branko Milanović sostiene che le competenze acquisite all’estero dai giocatori hanno migliorato i risultati delle nazionali e pertanto risarcito l’Africa, almeno parzialmente, del legs drain che ha invece impoverito le competizioni nazionali.

Un gradino, o forse un gradone, sotto, viene la Afc Asian Cup, che si disputa ogni quattro anni dal 1956 e che è andata a nove nazioni in diciotto edizioni. Dal 1992 ha acquisito progressivamente una fisionomia simile agli altri trofei continentali, soprattutto il professionismo, con il concomitante affermarsi del dominio del Giappone (quattro successi e una finale). Nel ranking Fifa, i nipponici non sono però mai andati oltre il nono posto (nel 1998), mentre il best delle altre tre potenze asiatiche, Iran, Corea e Arabia Saudita, è stato 15° (nel 2005), 17° (nel 2019) e 21° (nel 2014).

Il calcio femminile

L’eroina della finale della Coppa del mondo 2019 ha i capelli lilla, come Neymar li ha rosa, disegna le traiettorie delle punizioni come Andrea Pirlo, utilizza la sua notorietà per promuovere battaglie di società (lotta al razzismo, parità delle remunerazioni tra generi, difesa della libertà di aborto) come Socrates ed è americana come nessun giocatore maschio di primo piano.

Capocannoniere della rassegna con sei realizzazioni, oltre che unica atleta, maschio o femmina, a segnare alle olimpiadi direttamente su calcio d’angolo, Megan Rapinoe si è imposta come un’icona del movimento omosessuale globale e dello sport mondiale, ben oltre l’universo del women’s soccer. Rapinoe è la faccia più conosciuta di un team Usa che il New Yorker ha definito «profondo, devastante e gioioso», composto da individui che «offrono un modello nuovo di ciò che significa essere americano, che trova le proprie radici simultaneamente nell’idealismo e nel pragmatismo».

Prima di Rapinoe, il calcio femminile aveva già prodotto una figura emblematica, Marta Vieira da Silva, meglio nota come Marta. La migliore giocatrice al mondo nel 2006-2010 e poi di nuovo nel 2018, è l’atleta che ha segnato di più ai Mondiali (17 goal) e rivendica il diritto di conciliare femminilità e agonismo – ha chiarito, per esempio, che i suoi rossetti vistosi simboleggiano il sangue, ancorché simbolico, che scorre sui campi. Secondo Eduardo Archetti, «il calcio forma parte non solo delle dimensioni più generali di una società e della sua cultura, ma, in parallelo, si relaziona con la costruzione di un ordine e di un mondo maschile, di un’arena riservata, in principio, ai maschi». 

Dopo la Prima guerra mondiale, durante la quale, in mancanza di alternative, alcuni match femminili hanno radunato anche più di 50mila spettatori, la Football association ha proibito alle donne l’accesso ai campi dei club, sostenendo che lo sport era per loro quite unsuitable e che la pratica dovesse essere scoraggiata. Un divieto che è stato rimosso solo nel 1971, un anno dopo che identica decisione era stata assunta in Germania. In Brasile, giocare a calcio in competizioni ufficiali è rimasto impossibile per le ragazze fino al 1981, e ancora nel 2015 un alto papavero della federazione non si vergognava a dire, in un’intervista al Globe and mail (il Canada era sede di quel Mondiale), che le giocatrici stavano migliorando perché erano più belle, si truccavano e indossavano short più corti.

Su un’altra dimensione, la giuria che ha scelto il simbolo di Italia 1990 era composta da soli uomini (Sergio Pininfarina, Marco Zanuso, Franco Carraro, Armando Testa e Federico Zeri), cosa probabilmente inammissibile al giorno d’oggi, ma allora normale trattandosi di un evento che si poteva considerare d’interesse prettamente maschile.

È tutt’altro che casuale che siano proprio gli Stati Uniti, che, come visto, non sono riusciti a eccellere nel calcio maschile come sono abituati a fare in qualsiasi altra attività, sportiva e non, a essere incontestabilmente la potenza assoluta nel calcio femminile, primi nel ranking Fifa da marzo 2017. Il momento cruciale è il 1972 e il passaggio di Title IX, la legge che vieta la discriminazione sulla base del sesso a qualsiasi organizzazione che riceve finanziamenti federali. Da allora le università hanno dovuto dedicare identiche risorse al calcio femminile e maschile, e le istituzioni sportive americane hanno realizzato che solo dalle atlete potevano venire vere gioie a livello mondiale.

Uno dei rivali più agguerriti delle americane è il Giappone, consacrato campione alle olimpiadi londinesi del 2012. Le atlete avevano osato criticare la decisione di farle volare in economica, mentre la nazionale maschile, anche in quell’occasione dimostratasi scarsina, si accomodava in business class. La Cina ha ospitato il Mondiale nel 1991 e nel 2007 e ha disputato la finale nel 1999, anche se sono anni che langue in posizioni di rincalzo nel ranking.

La vittoria dell’Inghilterra all’Euro 2022 ha suscitato tanto entusiasmo anche perché è dal 1966 che gli inglesi (maschi) non vincono alcunché. Declinato al femminile, a livello di partecipazione il calcio è uno degli sport più popolari, sia negli Stati Uniti, sia in Europa settentrionale (in Germania le tesserate sono 200mila, in Olanda 155mila, oltre 100mila in Svezia e Norvegia).

In Italia il calcio femminile non è molto praticato, meno di 25mila tesserate, e non ha grande seguito, rispetto non solo a quello maschile ma anche ad altri sport come basket e volley. La creazione di apposite sezioni da parte dei grandi club, la qualificazione delle Azzurre al Mondiale 2019 e la relativa notorietà di giocatrici come Sara Gama promettono di colmare il ritardo.

Fattori di miglioramento

La Coppa del mondo 2019, disputata in Francia, ha attratto l’interesse dei telespettatori (la partita inaugurale ha avuto il 50 per cento di share) e dei tifosi (tutto esaurito per quasi tutte la partite, anche se va detto che i biglietti costavano molto meno che per le grandi competizioni maschili). Un apprezzamento confermato tre anni dopo dall’Euro disputato in Inghilterra e conclusosi a Wembley di fronte a 87mila spettatori, oltre a 17 milioni di telespettatori nel Regno Unito, più di quelli registrati per la celebrazione del Giubileo di Elisabetta II. La qualità del gioco è in costante miglioramento – l’indicatore più opportuno è il numero di passaggi per partita, che ormai si attesta intorno a 900, come in Premier league – grazie a un coaching molto più rigoroso.

È stata cruciale la richiesta di sviluppare sezioni femminili dei grandi club, che ha portato nuove risorse, finanziarie, tecniche e organizzative, e riproposto le rivalità tradizionali del calcio maschile. In Francia tra Psg e Ol, ma a parti invertite dato che è il club della capitale che sta cercando con fatica di soffiare la ribalta alle ben più titolate rivali, otto volte campionesse d’Europa e che solo nel 2021 si sono lasciate sfuggire il titolo nazionale che detenevano da quattordici anni.

Sta per partire la nuova formula della Champions con un montepremi di 24 milioni, quattro volte quello precedente, sponsorizzata da JustEat e PepsiCo e trasmessa da Dazn e YouTube. Gli sponsor, che fino a pochi anni fa erano obbligati a comprare gli eventi femminili al momento di aggiudicarsi quelli maschili, hanno iniziato a considerare il calcio femminile un prodotto a sé stante: ormai più della metà dei team femminili di squadre nate esclusivamente maschili hanno una marca differente sulla maglietta.

Questioni di genere

In una prospettiva di genere, ci sono varie questioni interessanti. Disporre di équipe in seno ai club maschili consente di accedere a infrastrutture e competenze superiori, ma rinforza al contempo la sudditanza del calcio femminile, visto come un obbligo “wokista” che sottrae tempo e risorse alle cose serie. Il numero ancora modesto di allenatrici di squadre femminili è sorprendente, quasi quanto l’ingaggio di Helen Nkwocha per condurre i maschi del Tvoroyrar Boltfelagdi nelle Isole Faroe – l’unico club di prima divisione nella geografia Uefa in questa situazione.

Salta poi all’occhio il livello molto più alto d’istruzione delle atlete: tra le campionesse del mondo in carica ci sono laureate di Stanford, Ucla, Berkeley, North Carolina e Penn State, mentre tra i 23 francesi consacrati a Russia 2018 sono solo sei ad avere la maturità e nessuno ha completato gli studi universitari. Eppure le remunerazioni sono oggetto di forte confronto: dopo Norvegia e Brasile, nel 2022 è negli Stati Uniti che la federazione ha sancito il principio della parità dei premi tra nazionale maschile e femminile, accordando anche un contributo per sanare le ingiustizie del passato. È evidente che presto si presenterà lo stesso dilemma per gli stipendi, come sottolineato dal cancelliere Olaf Scholz nel messaggio inviato alla Nationalelf prima della finale dell’Euro 2022.

In ogni caso, l’esperienza del tennis femminile mostra come i cambiamenti siano lenti: la battaglia di Billie Jean King per la parità dei premi nei tornei dello Slam ha prodotto i suoi primi frutti nel 1973 all’US Open, si è completata nel 2007 con Wimbledon e Roland Garros, ma il gap tra premi per uomini e donne, nel resto dei tornei di tennis, rimane del 75 per cento (a favore di primi, ovviamente). Per spiegare tutti questi problemi, nonché la sottorappresentazione femminile nelle istanze dirigenti, gli studiosi definiscono l’organizzazione dello sport come extremely gendered, una espressione di difficile traduzione ma di intuitiva comprensione. Va detto che fortunatamente il soccer ha evitato iniziative degradanti come l’americana Lingerie football league.


Il testo in queste pagine è estratto dal libro di Andrea Goldstein Il potere del pallone. Economia e politica del calcio globale, da poco pubblicato per il Mulino.

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