Dopo un’estate complicata, Biden entra nel suo primo autunno da presidente già a un bivio, tra la storia che spera di fare e la palude che prova a inghiottirlo. L’inquietudine democratica è in due immagini. Una è nota: la deputata Alexandria Ocasio-Cortez al Met Gala con l’abito-megafono: Tax the Rich, tassate i ricchi. L’altra è un video vecchio di un decennio, tornato in mente a molti in questi giorni.

L’altrettanto democratico senatore Joe Manchin nel 2010 mandò in onda uno spot per gli elettori del suo stato, il carbonifero West Virginia, nel quale sparava con un fucile al testo del cap and trade bill, la legislazione sul clima proposta da Obama e arrivata già morta in Senato.

Oggi Manchin, da presidente della commissione Energia e risorse naturali, è la figura decisiva per i piani sul clima di Biden al Senato. E non c’è solo l’ambiente, da voti e personaggi come Manchin dipendono tutte le costose riforme epocali e rooseveltiane che il presidente sta provando a mettere in piedi su infrastrutture, sanità, istruzione e povertà. In questa fase è l’equilibrio tra moderati e progressisti democratici a far capire dove andrà l’America, con la sua fragile maggioranza al Senato.

Il caso Manchin è istruttivo di come l’ambizione intergenerazionale che va da Joe Biden (78 anni) a Ocasio-Cortez (31) di dire e fare cose di sinistra si scontri con la vecchia guardia delle correnti più conservatrici nel partito. Sono personaggi che rispondono al potere di prima, ai meccanismi di prima e – nel caso di Manchin – anche all’energia di prima. E sono decisivi.

Il ruolo di Manchin è reso delicato da molte cose: dalla sua storia di democratico più conservatore del Congresso, dal solido legame con l’industria delle fonti fossili e dalla situazione di perenne spareggio 50-50 al Senato, che rende la sua posizione decisiva. Nella legge di budget da 3.500 miliardi di dollari che deve far approvare al Senato, Biden vuole inserire anche un pacchetto sul clima per stimolare la transizione energetica verso fonti rinnovabili. E ora tutti in America – New York Times in testa – si chiedono che farà Manchin, che rappresenta uno stato produttore di carbone (il secondo degli Usa) e gas (il settimo), e ha ricevuto generose donazioni dalle relative industrie.

Nel 2020 ha anche incassato mezzo milione di dollari di profitti da una società di brokeraggio del carbone che lui stesso aveva fondato nel 1988. Per attenuare i conflitti di interesse ne ha ceduto da tempo il controllo (al figlio) ma non le azioni. Per i democratici più progressisti, e per il fronte ambientalista americano, è una volpe a guardia del pollaio, che farà di tutto per non bloccare il flusso di profitti del fossile.

Climaticamente, il pezzo più importante del budget bill si chiama Clean Electricity Performance Program: un piano da 150 miliardi di incentivi e multe per invogliare le utility a passare dal fossile al rinnovabile. È una misura per mettere fuori mercato i produttori di petrolio, gas e carbone, quindi eroderebbe consenso locale e profitti personali di Manchin. E lui è a capo della commissione che darà forma a tutto questo: potrebbe abbassare gli standard dell’energia pulita, ridurre la portata degli incentivi, persino ricompensare chi passa al gas come energia di transizione o togliere del tutto la parte sanzionatoria del piano.

Dalla West Virginia alla Cina

Il caso Manchin è una crepa attraverso la quale osservare una difficoltà più generale per le ambizioni dei democratici. Il vento delle guerre culturali e della polarizzazione del tutto ha portato il partito a sinistra: nel 2006, secondo un sondaggio Gallup, chi si autodefiniva moderato superava i liberal di sinistra di dieci punti. Dodici anni dopo le percentuali si sono ribaltate.

Secondo Pew Research Center, il 47 per cento degli elettori democratici si identificano come liberal. Nel 2000, dopo otto anni di centrismo edonista clintoniano, erano il 27 per cento. Il problema è che i parlamentari progressisti vengono da stati nei quali si vince sempre e comunque e spingono verso sinistra, mentre i conservatori arrivano spesso dai «distretti viola» negli stati più difficili, devono sudarsi la riconferma a ogni mandato e provano a trainare il partito verso la comfort zone del centro. Da questa strettoia passano le riforme di Biden, come quella sul clima, così importante per ristrutturare la reputazione americana fatta a pezzi nell’aeroporto di Kabul.

Dai fondi che il Senato saprà allocare e da Manchin passano il suo piano di elettrificare buona parte del paese e far venire tutta quell’elettricità da fonti rinnovabili entro il 2035. C’è anche un’ipoteca per la sua credibilità globale in vista della COP26 di Glasgow: un presidente che non riesce a convincere la West Virginia difficilmente troverà ascolto, sullo stesso argomento, con la Cina.

Dalla stessa strettoia, sorvegliata dalla vecchia guardia al Senato, passano anche le altre policy progressiste del budget: l’estensione di Medicare, la sanità universale per i bambini in età pre-scolare, le misure anti povertà e gli aumenti di tasse ad aziende e famiglie più ricche. Una cosa è scriverlo su un vestito, una cosa è convincere i Manchin del partito.

È la «crescente, reciproca ostilità tra i progressisti e i moderati» nel partito democratico, scrive il Wall Street Journal. Quasi una contesa per l’anima del partito. Sul piano infrastrutture, cruciale anche da un punto di vista ambientale, il voto finale è il 27 settembre ma il dono innato di Biden per le mediazioni ha funzionato: l’intesa bipartisan al Senato ha portato dei risultati e sta conducendo la nave in porto, ma davanti c’è ancora una montagna da scalare, e in fretta.

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