C’è una pretesa iperbolica che ormai accompagna ogni competizione internazionale e segnatamente il tennis, lo sport che più di tutti ha accettato nei suoi tornei la presenza dei russi.

La pretesa che su un campo si risolvano i dissidi tra due popoli in guerra. Una racchetta salverà il mondo, il peso di una grande responsabilità spostato sulle gracili seppur muscolose spalle di giovinette e giovinetti in calzoncini, neanche fossero il cardinale Matteo Zuppi (auguri per la sua missione di pace), una supplenza delle Nazioni Unite, un surrogato di Xi Jinping o di Recep Tayyip Erdogan, le controfigure di Zelensky e Putin che si scambiano amorosi sensi.

Ora, la terra rossa del Roland Garros di Parigi è il teatro dove si misura il valore della responsabilità individuale, con esegesi accurata di parole, gesti, opere ed emozioni, il pubblico pagante, vedente e leggente che fa il pollice all’insù o il pollice verso quando nell’arena ci sono due individui che volevano solo gettare una pallina al di là della rete. E bisognerebbe considerare queste ragazze, questi ragazzi, come vittime di una propaganda nazionalista da entrambi i lati, impossibilitati a esprimersi come forse vorrebbero, pena l’ostracismo in patria per sé e i propri cari, l’accusa di intelligenza con il nemico, il bollino infamante di essere quinte colonne.

Succede così nelle guerre, non solo nell’attuale, dove si annullano i chiaroscuri, dove non c’è spazio per la dialettica, dove sono appese le cetre alle fronde dei salici, dove c’è spazio solo per il dualismo noi-loro. Ed è troppo facile soddisfare il nostro bisogno di eroi stando seduti in poltrona davanti alla tv o sui seggiolini degli spalti.

Il pubblico di Parigi ha fischiato rumorosamente Marta Kostyuk, ucraina, per non aver stretto la mano dopo l’incontro perso alla bielorussa Aryna Sabalenka. Il suo presidente ha promosso una campagna per espellere russi e bielorussi dalle Olimpiadi del 2024, decretando così lo sport come terreno di scontro, la solita invasione di campo della politica che, se non scandalizza perché è sempre successo, almeno dovrebbe far riflettere sulle pressioni subite da chi va in scena, da solo, in trasferta, sapendo di avere dietro di sé un popolo, il suo popolo, che spinge perché nulla conceda all’invasore qui rappresentato da una sua collega.

Dopo lo sfogo collettivo, sarebbe interessante chiedere ad ogni spettatore come si sarebbe comportato una guerra fa, nella stessa Francia di Vichy, o durante il rastrellamento nazista nel Marais degli ebrei deportati al Vélo d’Hiver, contando sulla collaborazione di tanti parigini. Il paragone può sembrare eccessivo, eppure segnala l’obbligo di voltare il cannocchiale, essere per qualche minuto Marta Kostyuk e vedere l’effetto che fa, in un gioco di ruolo dove alfine si potrebbe persino provare vergogna per aver reclamato il coraggio che magari non si possiede.

Fosse poi solo una questione di coraggio. Ne ha avuto Daria Kasatkina, russa, omosessuale, oppositrice di Putin, dichiaratamente contraria alla guerra di aggressione e perciò costretta a tenersi lontana dal Paese d’origine.

Dopo il match perso con l’ucraina Elina Svitolina ha visto l’avversaria andare veloce verso l’arbitro e da lontano, capendo che per una stretta di mano non era aria, le ha inviato a gesti un segno di congratulazioni prima di imboccare gli spogliatoi subissata dai fischi. Svitolina l’aveva elogiata per il sostegno all’Ucraina eppure nemmeno questo è stato sufficiente per un gesto pubblico di rispetto che comunque resiste ma va occultato, al riparo della mondivisione.

Ipocrisia

Cancellare il nemico, è il mantra della propaganda di guerra. Mostrificarlo possibilmente. Validare il concetto che anche il peggiore dei “nostri” è migliore del migliore dei “loro”. In questa tenaglia si stritolano sentimenti, amicizie, frequentazioni. Il pensiero unico dominante impone l’adesione totale, incondizionata, alla volontà del leader. Daria Kasatkina è un’eccezione, non la sola per fortuna.

Altri, la maggioranza, si sono sottomessi al credo di Vladimir Putin e chi siamo noi per giudicare quando il potere decide che lo sport, con la sua forza mediatica, è un ambito troppo serio per lasciarlo agli atleti e lo zar ti può schiacciare con il suo apparato repressivo che tutto controlla con la sempiterna giustificazione del nemico alle porte, della necessità di stringersi a coorte, dell’operazione militare speciale obbligatoria per salvare i destini della patria.

In uno slancio di suprema ipocrisia si vorrebbe che lo sport fosse completamente scisso dalle altre vicende umane, una sorta di zona neutra immune dal contagio e dalle nefandezze, nella perpetuazione della famosa tregua olimpica greca, peraltro mai rispettata come mitologia vorrebbe. Il Roland Garros, buon ultimo, torna almeno a segnalarci come si sia strappato da tempo il sipario di questa grossolana bugia.

Ma contemporaneamente dovrebbe insegnarci ad essere più indulgenti con tenniste e tennisti e prendercela semmai con i burattinai che condizionano i loro gesti. Né dovremmo meravigliarci se i ghiotti palcoscenici universali come un torneo grande slam del tennis vengono utilizzati per lanciare messaggi politici. Non solo Russia-Ucraina, anche i Balcani sono entrati nelle cronache tra un ace e uno smasch.

Novak Djokovic, non nuovo a iniziative del genere, dopo un incontro vinto ha voluto scrivere su un monitor nei giorni degli scontri di Zvecan in cui sono rimasti feriti anche quattordici soldati italiani della forza multinazionale: «Il Kosovo è il cuore della Serbia».

Un messaggio che lo rende paladino di una rivendicazione condivisa dai suoi connazionali nella tribolata questione che contrappone la Serbia e la sua ex provincia fattasi stato e la cui secessione è stata ratificata da poco più della metà dei paesi delle Nazioni unite.

Per Djokovic è stato più semplice: non c’era un albanese kosovaro dall’altra parte della rete. In ogni caso un altro segnale che dovremo rassegnarci alla fine dell’illusione circa un’altra parola d’ordine, quella che riguarda l’indipendenza dello sport: lo sport è la continuazione della guerra con altri mezzi.

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