La polizia lo ha fermato mentre era nelle trafficate strade di Bucarest: stava per andare a consegnare, ha scritto la sua squadra in un messaggio su Facebook, la sua candidatura per correre di nuovo alle prossime presidenziali. Perché l’ultranazionalista, più che stravagante, filorusso Calin Georgescu, alle elezioni che si terranno il prossimo quattro maggio in Romania, voleva candidarsi di nuovo dopo il trionfo di novembre scorso. Allora, è riuscito ad ottenere più di tutti gli avversari, oltre il 22% delle preferenze.

Il risultato di quelle urne è stato però annullato dalla Corte costituzionale per lo stesso motivo per cui Georgescu è stato fermato dalle forze dell’ordine: è in corso un’inchiesta su interferenze russe in elezioni.

L’intelligence rumena ha da mesi puntato l’indice contro il Cremlino. Mentre Georgescu finiva nell’ufficio del procuratore generale per essere interrogato per cinque ore sul finanziamento della sua campagna elettorale, la polizia faceva irruzione nelle abitazioni e uffici di 27 collaboratori del politico, che ora taccia le autorità di voler bloccare la sua nuova corsa elettorale. Il team Georgescu è sospettato di aver agito contro l’ordine costituzionale, di aver diffuso fake news e false dichiarazioni sulla provenienza dei finanziamenti elettorali, di aver cospirato per creare un’organizzazione di natura fascista. Nelle perquisizioni gli inquirenti hanno trovato armi e soldi.

Controverso e senza freni

È controverso e senza freni Georgescu, ma lo è stato fin da quando si è affacciato sulla scena politica rumena: non ha mai nascosto le sue simpatie per la destra più estrema. Prima che vincesse le elezioni a dicembre scorso con una raffica di video diventati virali sui social, “il candidato Tik Tok” nessuno sapeva chi fosse: nemmeno quelli che l’avevano scelto, che si erano però fidati della sua promessa di cambiamento e repulisti di politici corrotti e faccendieri. Nelle sue cavalcate sul web tuonava contro la Nato e il sostegno finanziario e militare all’Ucraina. Le elezioni di novembre le ha vinte anche con judo e chiesa: si faceva riprendere in allenamento e preghiera come quello che ha sempre dichiarato essere la sua stella polare, Vladimir Putin. Il Cremlino, in passato, quando interrogato in merito, ha detto di non conoscerlo.

L’ombra vera nella schiera dei suoi sodali è quella di Horatiu Potra, che qualcuno chiama il “Prigozhin rumeno”. Come il fondatore della Wagner (l’ex “chef di Putin” che gestiva la più grande compagnia militare privata russa impiegata ampiamente anche in Donbass) anche il 55enne Potra, ex membro della legione straniera francese, era a capo di una schiera di mercenari attivi nella Repubblica democratica del Congo.

La sua squadra – nota come Ralf, acronimo di “rumeni che hanno prestato servizio nella legione straniera francese” – è stata catturata da una milizia tutsi, la M23, e poi rilasciata dopo un negoziato. Il capo mercenario era sempre agli eventi dell’ambasciata russa di Bucarest, non ha mai nascosto il suo amore per Mosca (come d’altra parte non lo ha mai fatto Georgescu).

Fomentare disordini

Potra è finito in manette mesi fa quando guidava, carico di armi, verso Bucarest: le autorità lo hanno accusato di voler fomentare disordini nella capitale dopo l’annullamento del risultato elettorale. Da quando è stato rilasciato mantiene una certa somiglianza con Evgeny Prigozhin, o almeno con alcuni dei suoi comportamenti. Ora inveisce contro tutti sui social: contro «i servi del globalismo», il presidente filoeuropeo Klaus Iohannis e il governo che vuole spedire «i nostri figli in guerra in Ucraina».

Georgescu avrebbe sfidato al ballottaggio la riformista Elena Lasconi se non le autorità non avessero deciso di dichiarare nullo il voto, una scelta senza precedenti sia nella storia rumena che in quella europea, che non è piaciuta nemmeno agli avversari di Georgescu, che hanno interpretato la decisione come un tentativo del Psd, partito social democratico, di rimanere al potere.

Critiche ai giudici sono arrivate da ben più potenti ventriloqui della Washington di Trump: li ha chiamati “tiranni” Elon Musk; il vicepresidente statunitense JD Vance, durante la conferenza di Monaco, ha tirato in ballo la vicenda per spiegare come sia in pericolo la libertà di parola in Europa.

Anche quella di mercoledì 26 non sembra una mossa capace di fermare un candidato che raddoppia le standing ovation da martire, appena qualcuno prova a fermarlo: quando è stato rilasciato, è stato accolto da una folla di sostenitori.

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