Russia e America non sono stati sempre nemici. Anzi, per i primi centosettanta anni di vita (1775-1945) gli Stati Uniti hanno condiviso gli stessi nemici della Russia, in primo luogo Gran Bretagna e Giappone.

Caterina II di Russia ha dato un fondamentale sostegno alla ribellione delle tredici colonie britanniche nell’America del nord, che non solo avvantaggiava il commercio baltico, ma indeboliva l’Inghilterra, rivale della Russia nelle sfere d’influenza turca e persiana.

Il commercio diretto con Boston, che violava la legge inglese, aveva avuto inizio già nel 1763 e la lega di neutralità armata delle potenze del nord, promossa nel 1781 dalla Russia, aveva privato la royal navy delle materie prime svedesi per vele e alberature dei vascelli. Nel 1799 è nata la compagnia commerciale russa del Pacifico settentrionale con empori in Alaska (1790) e California (1812). Le relazioni diplomatiche russo-americane sono ufficialmente stabilite nel 1807.

Accordi e disaccordi

Il primo ambasciatore americano a San Pietroburgo è il futuro presidente John Quincy Adams. Per suo tramite, nel settembre 1812, la Russia offre la propria mediazione per un negoziato di pace anglo-americano, accettata dagli Stati Uniti ma rifiutata dall’Inghilterra.

La dottrina Monroe (1823) è occasionata anche dalla rivendicazione russa del commercio esclusivo sulla costa del Pacifico a nord del 51° parallelo, parzialmente accolta dagli Stati Uniti nel 1825. Seguono un trattato commerciale (1832), la vendita dell’emporio californiano (1841) e una consulenza americana per lo sviluppo delle ferrovie russe (1842).

Nel 1853 la Russia concede a privati californiani il monopolio del commercio nel Pacifico settentrionale, in cambio dell’appoggio diplomatico, logistico e umanitario americano durante la guerra di Crimea. Il sostegno americano alla Russia prosegue nel dopoguerra, per la riapertura del porto di Sebastopoli e la ricostruzione della flotta.

L’emancipazione dei servi della gleba, proclamata da Alessandro II nel 1861, precede quella degli schiavi proclamata da Abraham Lincoln nel 1863. Nel 1863 Francia, Inghilterra e Italia incoraggiano la rivolta polacca che avrebbe potuto disintegrare l’intero impero russo, e, per prevenire un colpo di mano inglese, le flotte russe del Baltico e del Pacifico si rifugiano rispettivamente a New York e a San Francisco, dove vengono accolte entusiasticamente come monito contro i temuti interventi anglo-francesi a sostegno del sud.

La vendita dell’Alaska agli Stati Uniti (1867) viene decisa per prevenire l’occupazione britannica. È un fiasco invece la contemporanea joint venture con Western Union per una linea telegrafica transiberiana, ma i reportage di giornalisti e scrittori fanno scoprire al pubblico americano il fascino degli immensi spazi. In seguito, gli indignati rapporti consolari sui pogrom antisemiti (1869, 1871) si intrecciano con l’emigrazione dei mennoniti (dal 1873) e con le visite del granduca Alessio in America (1871, 1877) e del generale Sherman (1872) e del già presidente Ulysses Grant (1878) in Russia.

Nell’ultimo ventennio del secolo, crescono nel pubblico americano sia l’interesse per la cultura e la letteratura russa, sia l’indignazione per i pogrom e le deportazioni intensificati dopo l’assassinio di Alessandro II (1881) e per gli atteggiamenti protervi del governo russo, come il rifiuto degli aiuti umanitari americani per alleviare la carestia dei contadini ucraini o dei visti di espatrio in America richiesti dagli ebrei (1893).

L’intervento di Roosevelt

Il dies natalis della geopolitica occidentale è la conferenza tenuta nell’aprile 1904 da Sir Halford Mackinder alla Royal geographical society, nella quale, sotto fumose metafore, di fatto Mackinder propaganda l’appoggio inglese all’attacco imminente del Giappone contro Port Arthur, la base strategica in mano russa che controllava il traffico marittimo con la Cina settentrionale.

Due anni prima, fiaccata dalla guerra boera e preoccupata dal sorpasso finanziario di Wall Street, l’Inghilterra stipula una formale alleanza col Giappone. Non solo antirussa, ma anche antiamericana. Configura infatti la possibilità di stringere gli Stati Uniti in una morsa, del Giappone dal Pacifico e dell’Inghilterra dall’Atlantico e dal Canada. La risposta del presidente Theodore Roosevelt è di rompere gli indugi sul canale tra i due oceani scegliendo la soluzione panamense, per consentire la rapida riunione delle due flotte americane.

La sconfitta russa, aggravata dal terrorismo polacco e dal conato rivoluzionario del 1905, viene alleviata da una informale mediazione di Roosevelt, che salva la Siberia dalle mire del Giappone e viene per questo insignito del Nobel della pace («per il suo ruolo nel porre fine a una guerra sanguinosa recentemente combattuta fra due delle Grandi potenze mondiali, il Giappone e la Russia»). Conflitto che oggi viene considerato come la “guerra mondiale zero”, rafforzando la tesi dell’origine asiatica, anziché europea, della Grande guerra. La spartizione della Persia sembra concludere, nel 1907, il “grande gioco” anglo-russo per il controllo dell’Asia Centrale e della Via della Seta.

Verso il distacco

È ai primi del secolo che la sintonia russo-americana comincia realmente a incrinarsi. Oltre alla nuova ondata di rifugiati ebrei e politici provocata dalla repressione zarista, in America fanno enorme impressione i pogrom in Bessarabia (1903) e a Odessa (1905) e la strage di Tabriz, ultima roccaforte della rivoluzione costituzionale persiana del 1906 (ispiratrice di quella khomeinista del 1979), nella quale le truppe russe avevano trucidato anche un giovane cooperante americano, oggi considerato eroe nazionale iraniano.

Il rifiuto del governo russo di accettare i passaporti rilasciati agli ebrei russi naturalizzati americani, porta così nel 1912 all’abrogazione del trattato commerciale del 1832.

Nel 1905, alla notizia della sconfitta russa a Tsushima, il Kaiser ha un attacco di nervi, vedendo sfumare il sognato condominio russo-tedesco sulla Cina. Il 30 dicembre 1912 Russia e Germania celebrano il centenario della Convenzione russo-prussiana di Tauroggen, mediata da Clausewitz, origine dell’asse russo-tedesco che per quasi un secolo ha bilanciato il «primo occidente» anglo-francese (coi satelliti turco e italiano) e “trattenuto” l’Europa sull’orlo dell’abisso.

Nel 1914, mentre si inaugura il canale di Panama, la Russia paga il debito contratto vent’anni prima con la Francia, scendendo in campo contro il naturale alleato e al fianco del vero nemico. L’offensiva Brusilov salva l’Italia distogliendo truppe austro-tedesche dalla Strafe-expedition e in tre anni i caduti russi sono oltre un terzo del totale dell’Intesa. La guerra divora tanto il regime zarista quanto la rivoluzione di febbraio. Ma l’effetto permanente del «suicidio dell’Europa civile» è che, nel fatale 1917, gli Stati Uniti entrano in Europa e la Russia ne esce.

L’intervento dell’Intesa nella guerra civile russa (la “Churchill’s Crusade”) e il tentativo di smembrare l’impero zarista vengono bilanciati dall’impegno americano in Siberia, teso, come tredici anni prima, a impedire l’annessione giapponese della Manciuria russa.

Il reportage di John Reed crea simpatie per la rivoluzione socialista, rappresentata come il laboratorio di un mondo nuovo. L’interruzione delle relazioni diplomatiche non impedisce gli investimenti americani nel settore minerario, gli aiuti umanitari nella carestia del 1921-1923, la vendita di macchinari per la modernizzazione dell’industria pesante voluta da Iosif Stalin.

Con coraggiosa lungimiranza, Franklin Delano Roosevelt prende l’iniziativa, nel novembre 1933, di ristabilire le relazioni diplomatiche, e di mantenerle, turandosi il naso nell’interesse nazionale americano, nonostante le purghe staliniane, la spartizione della Polonia e la guerra d’inverno con la Finlandia. Fatti che, visti dall’America, erano almeno in parte compensati dalla soddisfazione per il contemporaneo arresto dell’espansione continentale del Giappone ottenuto dall’Armata sovietica nella battaglia di Khalkhin Gol.

L’unica protesta diplomatica americana riguarda, nel 1940, la ri-occupazione sovietica delle vecchie province zariste del litorale baltico, contemporanea a quella tedesca di Norvegia e Danimarca.

Due giorni dopo l’aggressione tedesca all’Unione sovietica, Roosevelt promette assistenza e in settembre include l’Urss negli aiuti Lend-Lease. Decisioni impopolari, perché molti condividevano l’argomento moralistico usato dal movimento antinterventista dell’America First, per cui attaccando Adolf Hitler si faceva il gioco di Stalin. Ma Pearl Harbor e le dichiarazioni di guerra tedesca e italiana tagliarono la testa al toro.

Il condominio della guerra fredda

Il trentennio delle guerre mondiali termina con due vittorie complementari: ma victory e pobieda raccontano storie diverse. La causa remota è il rifiuto inglese di accordare alla Germania il condominio mondiale negato a Napoleone. Il risultato è appunto il condominio, ma tra Washington e Mosca.

Il tramonto dell’occidente europeo è l’alba e l’occaso del nuovo occidente americano. Per mezzo secolo, la felix culpa che aveva generato l’equilibrio del terrore, preserva la pace nell’emisfero settentrionale, e nel quadrante occidentale abbiamo vissuto egoisticamente the best years of our lives.

Se il grande gioco anglo-russo è stato una collisione d’imperi per il controllo del rimland eurasiatico e la spartizione della Cina, la guerra fredda è stata una sfida globale tra due sistemi antagonisti, che tuttavia si riconoscevano reciprocamente, avevano fronti stabilizzati e reciprocamente ben difesi ed erano in grado di negoziare una coesistenza pacifica e un condominio di fatto.

L’implosione del sistema comunista recide il legame che per settant’anni aveva preservato dallo smembramento il più grande degli imperi multietnici del 1914, seminando irredentismo russo negli stati successori e, ripetendo l’errore compiuto nel 1919 nei confronti della Germania e della Russia sovietica, gli Stati Uniti riscrivono unilateralmente la mappa geostrategica dell’Europa.

Sia pure ribadendo la supremazia americana, il nuovo ordine mondiale proposto nel 1990 da George W. Bush è multilaterale e inclusivo, basato sulla coesistenza pacifica e sul prestigio dell’America, realmente ancora percepita come communis patria.

Trent’anni di idealismo radicale, di unilateralismo, di esportazione armata della democrazia e di un allargamento della Nato incurante, se non sprezzante, della sicurezza russa, hanno invece indebolito la leadership globale degli Stati Uniti più del temuto sorpasso cinese e del revanscismo russo, declassandoli da regolatore della globalizzazione e garante della sicurezza internazionale, a “Repubblica con un impero” territoriale (di fatto costituito da Unione europea e parte del Commonwealth).

Pensare di poter imporre universalmente la visione radicale della democrazia ha avuto un costo geopolitico e strategico, innescando regressioni nazionaliste, populiste e fondamentaliste tanto nelle società occidentali quanto nel resto del mondo. Mentre la guerra globale al Terrore, durata il doppio del Vietnam e più inutile e fallimentare di questa, ha non solo destabilizzato il Medio Oriente aprendo una voragine geostrategica nel settore centrale e mediterraneo del rimland, ma ha minato la credibilità militare dell’occidente agli occhi dei suoi avversari.

Ricostruire la capacità strategico-militare degli Stati Uniti dopo il Vietnam ha richiesto almeno un decennio, e ciò è stato possibile solo perché la sconfitta ha prodotto uno shock salutare. Mentre il fallimento della guerra al Terrore è stato completamente rimosso (a parte le futili polemiche sulla «fuga da Kabul»), impedendo una presa di coscienza e un cambio di mentalità e di ceto dirigente.   

La crisi attuale

La schiacciante superiorità americana sul terreno della guerra economica e finanziaria ha aggirato, se non del tutto svuotato, la deterrenza nucleare, ultima e illusoria ratio della Russia (più che della Cina). Ma la guerra economica prolungata è essenzialmente «guerra al commercio» e «guerra ai neutrali», com’era esplicitamente percepito già all’epoca del blocco continentale che ha alienato il consenso della borghesia all’Impero napoleonico.

L’abuso delle sanzioni permanenti come forma non cinetica di guerra preventiva non solo ha contraddetto il dogma economico della pace liberale; ha anche mutato i rapporti degli Stati Uniti con gli alleati europei, sostituendo il consenso attivo che nasce dalla comune percezione delle minacce e da un reciproco e leale burden-sharing, con quello passivo e labiale imposto dai meccanismi anti-defezione (ossia dal timore di sanzioni secondarie e ritorsioni indirette).

Paradossalmente le sanzioni hanno rafforzato e reso ancor più autoritari i regimi antagonisti, spingendoli a ridurre le proprie vulnerabilità economiche e finanziarie, a coalizzarsi per necessità di sopravvivenza contro il comune avversario e a sfruttare il differenziale di resilienza che essi ritengono di avere nei confronti di un occidente sempre più senile e in preda a visioni distopiche del proprio declino.

La doppia minaccia su Ucraina e Taiwan sta dettando in modo imprevisto l’agenda geostrategica dell’occidente. E il precipitare della situazione in Europa è stato talmente sottovalutato da condurci alla crisi attuale.

Alcuni pensano che il problema sia trovare un modo per consentire a Putin di ritirarsi senza perdere troppo la faccia. Altri che il prezzo per evitare all’occidente una «nuova Monaco» sarebbe una nuova drôle de guerre economica, abbandonando gli ucraini alla loro sorte, come i polacchi nel 1939. Altri ancora che questa è l’ultima occasione rimasta per tentare di salvare la Russia, anche attraverso la guerra. Tra i due litiganti il terzo attende, calcolando il momento di riprendere Taiwan, magari senza colpo ferire.

Torti e ragioni? Gli storici ancora dibattono la “kriegschuldfrage” (la questione della responsabilità) del 1914. La guerra impossibile che nessuno voleva e che alla fine è scoppiata.                

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