«Abbiamo speso quasi una settimana […] cercando di rendere chiaro che, anche di fronte all’aggressione russa in Ucraina, anche nel mezzo della più ampia sfida, ad esempio, che ci pone la Cina, il nostro stesso emisfero è una priorità». Con questo passaggio il segretario di Stato Usa Antony Blinken ha concluso la sua conferenza stampa al Summit of the Americas – il vertice che riunisce i paesi dell’emisfero occidentale – tenutosi lo scorso luglio a Los Angeles.

In realtà, per coloro che abbiano una minima dimestichezza con la traiettoria recente delle relazioni interamericane, questa dichiarazione risulterà quantomeno controversa. Per anni, infatti, l’America Latina non ha occupato un posto di rilievo nell’agenda di Washington, se non per tematiche (immigrazione, narcotraffico) strettamente connesse alle proprie vicende interne. Anzi, le diverse amministrazioni Usa sono state accusate negli ultimi decenni di essersi disinteressate alla regione e di non essere state in grado di formulare una politica di engagement coerente ed efficace.

Per certi versi, è però vero che Washington ha ora ricominciato a guardare ai vicini latinoamericani. Tuttavia, ciò è avvenuto non – come ha fatto intendere Blinken – nonostante le sfide globali, ma piuttosto proprio per via di quelle sfide.

L’emisfero occidentale, e in particolare il continente sudamericano, è infatti diventato in anni recenti uno dei teatri della competizione strategica tra Usa e Cina. Sia chiaro: non si tratta di certo del fronte più caldo o decisivo della spirale competitiva in cui sembrano entrate Washington e Pechino. Ma non per questo il caso sudamericano va tralasciato. Anzi, questa regione offre degli spunti di riflessione non solo sull’evoluzione dei rapporti sino-statunitensi, ma anche sugli effetti che la crescente rivalità sta producendo per gli attori periferici del sistema internazionale.

L’influenza cinese

Tradizionalmente considerata parte della sfera di influenza statunitense, le relazioni internazionali della regione sono state storicamente condizionate – soprattutto nella seconda metà del Ventesimo secolo – dal rapporto con la potenza nordamericana. Nonostante ciò, proprio in quest’area è stato possibile osservare, nel corso degli ultimi due decenni, una straordinaria crescita della presenza e dell’influenza della Repubblica popolare cinese (Rpc), in grado di costruire legami solidi, e sempre più asimmetrici, con i governi sudamericani.

Pechino è oggi il primo partner commerciale dell’area, davanti a Stati Uniti e Unione europea, e assorbe oltre il 20 per cento dell’export della regione. Due paesi (Cile e Perù) già detengono un accordo di libero scambio con la Rpc, e altri (Ecuador, Uruguay, Panama) sembrano intenzionati a siglarne uno.

Altrettanto rilevante è il ruolo finanziario giocato dalle grandi banche e aziende cinesi, pubbliche e private, in settori come quello minerario, dell’energia nucleare o dello spazio, per citarne alcuni. Solo nell’ultimo anno, ad esempio, l’azienda di stato China national nuclear corp (Cnnc) ha siglato un accordo per la costruzione della nuova centrale nucleare argentina Atucha III, un progetto da otto miliardi di dollari.

Inoltre, Pechino ha consolidato i vincoli politici e istituzionali con i governi regionali, come dimostrato dalla creazione del China-Celac Forum nel 2014 o dalla partecipazione di ben otto paesi dell’area alla Belt and road Initiative (ultima ad aderire l’Argentina, nel febbraio 2022).

L’inquietudine di Washington

L’evoluzione dei rapporti sino-latinoamericani è stata seguita a Washington con un misto di indifferenza e preoccupazione. Inizialmente, l’avvicinamento di Pechino alla regione è stato giudicato come un processo dettato da meri obiettivi commerciali, frutto della complementarità tra la domanda interna del mercato cinese e la ricchezza di commodities dei paesi sudamericani, privo di implicazioni dirette per gli interessi e la sicurezza statunitensi.

Con l’arrivo al potere di Xi Jinping e il salto di qualità sul piano politico e istituzionale compiuto dalle relazioni tra Pechino e la regione, l’inquietudine di Washington è aumentata.

Il cambiamento della postura statunitense è divenuto evidente durante gli anni dell’amministrazione Trump, quando la competizione con la Cina è divenuta la bussola della strategia internazionale Usa. In America Latina, come in altre parti del globo, la diretta conseguenza è stata l’impiego di una retorica via via più aggressiva, che intendeva mettere pressione ai governi locali e spingerli a rivedere o limitare la cooperazione con Pechino.

In tal senso, l’attuale amministrazione democratica non sembra essersi discostata eccessivamente dalla precedente. Certo, Biden ha scelto un approccio molto più dialogante e multilaterale, come dimostrato proprio dall’ultimo Summit of the Americas. Nei fatti, però, l’obiettivo di porre un argine all’influenza cinese nella regione e di riguadagnare terreno in settori strategici è rimasto al centro dell’agenda di Washington.

Il caso brasiliano

Dal punto di vista sudamericano, gli effetti di questa nuova dinamica iniziano a essere ben visibili. A più riprese, i governi della regione hanno già dovuto destreggiarsi tra le pressioni incrociate di Washington e Pechino, da un lato, e il proprio interesse nazionale, dall’altro.

Caso paradigmatico è stato quello brasiliano, relativo alla stesura, da parte del governo Bolsonaro, delle regole della prima asta per l’assegnazione delle frequenze della rete 5G. La Casa Bianca, come con Regno Unito e Australia, aveva sollecitato l’esclusione del colosso Huawei, sollevando dubbi sull’affidabilità dell’azienda cinese nella gestione della rete. Dal canto suo, Pechino ha lavorato – secondo alcuni ricorrendo anche, a inizio 2021, alla leva dei vaccini anti-Covid – per assicurarsi un posto di primo piano nella fornitura delle infrastrutture del 5G.

Il compromesso trovato da Brasilia è stato quello di acconsentire alla partecipazione di Huawei nella realizzazione della rete nazionale (in modo da non minare il rapporto con Pechino), ma di escludere da quest’ultima le infrastrutture di cui si serviranno il governo e le pubbliche amministrazioni (un segnale di allineamento con Washington).

Il caso argentino

Come sostengono alcuni osservatori, però, la competizione sino-statunitense può tradursi anche in un’opportunità per attrarre nuovi capitali nella regione.  Emblematico è il caso argentino. Insieme a Bolivia e Cile, l’Argentina rientra nel cosiddetto “triangolo del litio”, un’area che ospita oltre la metà delle riserve mondiali del prezioso minerale.

Le aziende cinesi già da diversi anni rappresentano una quota rilevante del settore. Ad esempio, lo scorso luglio la cinese Ganfeng Lithium ha rilevato per oltre 960 milioni di dollari l’argentina Lithea Inc, in modo da assicurarsi l’accesso a due riserve presenti nella provincia di Salta.

Washington sembra ora intenzionata a entrare prepotentemente nel settore e ad assicurarsi catene di approvvigionamento che riducano la dipendenza dalle esportazioni cinesi. Proprio in questi giorni, dieci governatori delle province del nord argentino hanno incontrato, a Washington e New York, funzionari del governo statunitense, membri del Congresso, imprenditori privati e rappresentanti di organismi multilaterali come Banca mondiale e Banca interamericana di sviluppo, per costruire un framework attraverso il quale incanalare gli investimenti nordamericani nell’area.

Rischi e opportunità

Le ricadute di lungo periodo della rivalità tra Stati Uniti e Cina per la regione sono al momento indecifrabili. La dinamica in atto produrrà certamente nuove pressioni e rischi, ma (potenzialmente) anche nuove opportunità. Quanto saranno le prime o le seconde a prevalere, dipenderà dall’evoluzione più o meno conflittuale del rapporto sino-statunitense, così come dalla capacità e dall’iniziativa degli attori locali.

La certezza è che i governi sudamericani, nel compiere le proprie scelte strategiche, dovranno procedere d’ora in avanti con accresciuta cautela, evitando di restare intrappolati nella logica da “gioco a somma zero” che sembra farsi strada nei rapporti tra Washington e Pechino.

© Riproduzione riservata