Con un annuncio melodrammatico il potere talebano a Kabul si spezza dopo quindici mesi di inerzia politica, di crisi sociale, di editti ossessivi contro le donne e di isolamento diplomatico. Il mullah Baradar, capo dell’ala moderata, primo vice premier, ha annunciato piangente, davanti alle telecamere, che gli è apparso in sogno il mullah Mohammed Omar, fondatore dell’emirato afgano. Richiamando altre visioni più antiche e illustri contenute nel Corano. Il corpo di Omar era spezzato in due: la testa si trovava in Qatar, il resto della figura a Kabul. Un monito secondo Baradar per indicare che la fazione armata oggi governa il paese, con il ministro degli Interni Sirajuddin Haqqani, mentre la testa politica è separata, altrove, a Doha.

Ma già alla metà di ottobre un altro segnale di crisi silenziosa e profonda era apparso. Sotto il logo di una colomba, di una bilancia che amministra la giustizia, e invocando un versetto del Corano sulla riconciliazione tra fratelli, si palesava un governo afgano alternativo, in esilio.

Il movimento afghano

Ci sono voluti almeno dieci mesi di gestazione. Era un annuncio quasi miracoloso attorno a un paese devastato da quaranta anni di conflitti. Ufficialmente si presenta come Movimento nazionale afghano per la pace e la giustizia, nella sua prima dichiarazione pubblica non indica alcun luogo di nascita, di proposito.

Perché i duecentoventi primi firmatari vivono all’estero ma si mescolano a un gruppo molto più numeroso che vive nel paese, per ora protetto dall’anonimato. I nomi sono distribuiti secondo l’ordine alfabetico della lingua dari.  

Il manifesto del Movimento evita lo scontro aperto con gli studenti islamici, è scritto da afgani volonterosi, ma soprattutto determinati e abili. Raccoglie personaggi di ogni provenienza: politici, membri di governi passati, militari, tecnici, religiosi, accademici e giornalisti, donne e uomini attivisti dei diritti umani, rappresentanti del mondo economico.

Hanno un consiglio direttivo composto da otto uomini e sette donne, una rappresentanza che già da sola ha un significato rivoluzionario rispetto ai comportamenti dei mullah oggi al potere, ossessionati dalle scuole femminili, dall’abbigliamento delle donne, dal loro ruolo nella vita pubblica. In questo periodo si vede lo stesso violento contagio tra due regimi islamici confinanti e fragili, Afghanistan e Iran, che scavalca la storica ostilità tra sunniti e sciiti.

I quattro punti di Doha

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I sostenitori di Pace e giustizia di proposito, con intelligenza, non propongono nulla di nuovo, recuperano solo gli striminziti accordi di Doha firmati due anni fa tra americani e talebani. Uno strumento diplomatico vecchio, prodotto ai tempi di Trump, rinchiuso in quattro paginette, che lasciava ai margini il governo allora in carica a Kabul e del quale non è rimasta la minima traccia.

Riletto anche a distanza di tempo sembra un testo concepito da dilettanti della diplomazia. I duecentoventi firmatari di oggi, alcuni indicati solo dal nome non per prudenza ma perché così può capitare con l’anagrafe afgana, ricordano bene che in quel testo c’erano quattro punti da rispettare. E che invece ne è stato applicato solo uno, cioè la partenza dal paese delle truppe straniere, per giunta con una operazione anticipata e frettolosa, conclusa in piena notte, a luci spente.

Per il Movimento gli altri tre punti sono sempre validi, e anche con ampio ritardo devono essere applicati: non offrire ospitalità a gruppi terroristici nel territorio afgano, raggiungere un cessate il fuoco permanente tra tutte le parti afgane, formare un nuovo governo islamico. Che appunto non significa composto esclusivamente da talebani, meno ancora da quelli più oltranzisti.

Un movimento di spaccatura

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Il Movimento di fatto si candida, senza pretenderlo apertamente, a prendere il posto dell’ultimo governo laico del presidente Ghani, fuggito ingloriosamente poco prima della partenza dei marines. Si candida a governare con gli studenti islamici, e probabilmente a produrre una spaccatura aperta tra moderati e la fazione fanatica.

Come il sogno del mullah Baradar oggi indica. Per arrivare in seguito a una pacificazione durevole e a un governo legittimo, senza distinzioni di genere, età, etnia, lingua, religione e status sociale.

Queste potrebbero essere ancora una volta le promesse vuote che gli afgani si sono sentiti ripetere dal golpe del 1973. Quando il principe Daud fece nascere la repubblica, con un golpe da operetta, attuato con cinque carri armati, uno dei quali finito nel fiume Kabul rinsecchito dal caldo estivo, con minimo spargimento di sangue, tra l’indifferenza della gente, approfittando della assenza del re Zahir Shah. Finiva la stagione della indipendenza e integrità nazionale.

Da allora è stato tutto un itinerario verso la frantumazione del paese. Quando sei anni dopo arrivarono i soldati sovietici subito a Peshawar, nel vicino Pakistan, erano sorti per contrastarli un centinaio di partiti politici e di gruppi armati. Più per calcoli personali, di ambizioni tribali e di benefici economici che per diffuso patriottismo. Alle spalle c’erano governi stranieri generosi e ciascuno con particolari interessi, non un progetto politico unitario.

Oggi invece compare un elemento sconosciuto. Questa miscela tra esuli che si iscrivono pubblicamente al Movimento e afgani ben più numerosi che li sostengono dall’interno del paese, rappresenta a suo modo una risorsa inedita.

Una versione avanzata della Grande assemblea, della Loya jirga, la tradizionale occasione per riunirsi in circolo in un campo di grano e prendere le decisioni importanti tra notabili delle tribù, della religione, dell’economia. Per decidere bastava anche un leggero cenno del capo, senza troppe argomentazioni. E con una platea ristretta.

Questa volta gli organizzatori della prima apparizione in pubblico si sono collegati da remoto, la gente ha potuto vedere che mancavano certi volti noti e screditati, quelli che a ogni nuovo capitolo della cronaca politica nazionale si presentavano con una piroetta, pronti per una nuova alleanza. Di fronte a questi nuovi attori i leader talebani sono politicamente sguarniti. Con l’economia in condizioni disastrose e metà popolazione realmente affamata.

I padroni i Kabul

C’è poi un altro elemento che toglie forza ai padroni attuali di Kabul. Da settembre gli americani hanno deciso di sdoganare metà dei beni afgani bloccati, e a Ginevra verrà creata una Banca centrale afgana bis che quindi avrà a disposizione 3,5 miliardi di dollari.

Due economisti afgani, scelti dagli americani, entrambi in passato con incarichi al vertice della Banca centrale a Kabul, sono entrati nel consiglio di amministrazione della nuova struttura, assieme a un americano e a uno svizzero. Uno dei promotori di Pace e giustizia, che non compare nell’elenco degli iscritti ma che ha avuto un ruolo importante nella creazione del Movimento, si ritrova imparentato con uno dei consiglieri afgani nella banca bis.

Forse avrà buoni argomenti per dialogare con i talebani. Lo scopo dei dollari restituiti è quello di «risolvere i problemi di liquidità», di mantenere la stabilità dei prezzi prima che arrivi un inverno particolarmente freddo. Al punto sei del programma con 220 firme è scritto che «la povertà e la vulnerabilità del nostro popolo…può essere, come in passato, manipolata per prolungare il conflitto e l’instabilità».

Nessuno sponsor

La dichiarazione che inizia con il logo della colomba e della bilancia ha tra i primi firmatari il ministro degli Esteri dell’ultimo governo laico afgano, Mohammad Haneef Atmar. Da mesi viaggia in continuazione tra Europa, medio oriente e India. Probabilmente qualche paese contribuisce a sostenere viaggi e riunioni, anche se la lobby afgana in esilio ha esponenti di rango finanziario elevato.

Non c’è uno sponsor ingombrante dietro il Movimento, come è avvenuto per molti anni con le interferenze pachistane. Piuttosto si può dire che tre paesi diversi per collocazione politica e tradizione hanno dato ospitalità logistica: Germania, Turchia e Qatar. I primi due hanno una storia di buone relazioni lunga un secolo. Il Qatar non vanta questa anzianità, ma comunque è a Doha che si è chiusa la presenza americana in Afghanistan.   

Oggi la diplomazia internazionale è concentrata sull’Ucraina, sulle minacce di Putin, sulle ambizioni di Pechino, sulle verifiche elettorali americane, sulla crisi energetica e i guasti del clima. Le promesse occidentali dell’agosto 2021 “non abbandoneremo gli afgani” suonano come parole al vento. Mentre il programma di Pace e giustizia sembra un progetto quasi miracoloso, di fronte a un potere talebano inetto a governare. Ammonito adesso dalla apparizione in sogno del mullah Omar.      

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