La cartografia energetica del mondo ricorda ormai quella di un campo minato. Nonostante gli allarmi, che somigliano sempre più a implorazioni, di Onu, Agenzia internazionale dell’energia, Ipcc, oggi c’è un decennio di bombe al carbonio in costruzione. Ogni scienziato del clima prevede che le residue possibilità di contenere la crisi passino dal dimezzare le emissioni di gas serra entro il 2030, ma gli attuali piani di espansione a breve termine di tutte le grandi aziende energetiche comportano l’estrazione di combustibili fossili a pieno regime da qui alla fine del decennio, con 103 milioni di dollari di investimento al giorno. È la resistenza dello status quo economico combinata col panico della guerra in Ucraina.

Siamo nella fase “l’impero colpisce ancora” della politica energetica, e i movimenti per il clima stanno aggiornando tattiche e metodi. È finita la fase dei cartelli colorati, siamo nella stagione della paura e della rabbia, la temperatura del conflitto ambientalista si sta alzando in tutto il mondo occidentale e la nuova strategia pesca nel più novecentesco dei metodi di lotta: la resistenza passiva, mettere il proprio corpo davanti all’infrastruttura, con l’idea di fermarne fisicamente il funzionamento.

Nel Regno Unito il gruppo Just Stop Oil porta avanti da mesi azioni di blocco contro raffinerie e cisterne. Le assemblee degli azionisti di Shell e Blackrock sono state circondate dai manifestanti. Tutte le organizzazioni mantengono la propria fede nella non violenza, che sta solo diventando più radicale e ostinata. A questo punto della storia, però, c’è chi suggerisce: perché non contrastare le bombe con le bombe?

Il fianco radicale

Andreas Malm è un attivista e accademico di fede marxista, insegna ecologia umana all’Università di Lund, in Svezia, Naomi Klein lo ha definito come «uno dei più originali pensatori sul cambiamento climatico». Il personale picco di radicalizzazione violenta di Malm è quanto meno trascurabile: da giovane era in un movimento punk di sabotatori urbani che bucavano le gomme dei Suv parcheggiati per le vie di Stoccolma. Lo racconta lui stesso, nelle pagine più autobiografiche del suo nuovo saggio di invito a passare dai cortei agli ordigni, la sua auto-candidatura a cattivo maestro di questa generazione.

Il libro si intitola Come far saltare un oleodotto, lo ha pubblicato in Italia Ponte alle Grazie (traduzione di Vincenzo Ostuni): è una via di mezzo tra un esercizio retorico e una provocazione intellettuale. A dispetto del titolo, non contiene nessuna istruzione su come far saltare (in aria) un oleodotto, ma un tentativo di decostruire l’idea della non violenza come unica strategia di militanza possibile a disposizione dei movimenti per il clima. Parafrasando il Nanni Moretti di piazza Navona, secondo l’ecologo svedese con questi attivisti non vinceremo mai. Troppo buoni, troppo ingenui, troppo perbene.

La tesi di Malm è questa: i movimenti del passato citati dagli attivisti per il clima come ispirazione per la pratica non violenta – l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale, i diritti civili, la fine dell’apartheid – hanno avuto bisogno di una frangia radicale e minacciosa per essere convincenti e ottenere risultati significativi. In sostanza, i movimenti attuali avrebbero prodotto troppi Martin Luther King e nessun Malcom X, per rimanere alla stagione dei diritti civili, e la protesta pacifica del primo ha avuto successo anche perché c’era la minaccia violenta del secondo a corroborarla.

Senza un fianco radicale non si va da nessuna parte. L’invocazione di Malm è verso una violenza contro la proprietà privata, non contro le persone. «La proprietà privata ci costerà il futuro, abbiamo diritto di distruggerla, perché non lo stiamo ancora prendendo in considerazione?». Malm riconosce a Fridays for Future, Extinction Rebellion, Sunrise Movement di essere i movimenti più dinamici e innovativi negli ultimi vent’anni: hanno ottenuto consenso mediatico e indirizzato il tono della conversazione politica, ma sul fronte concreto secondo lui hanno ottenuto gli stessi risultati dell’ambientalismo delle generazioni precedenti: nessuno. Vengono blanditi e poi ignorati, mentre le emissioni di gas serra continuano a crescere e i limiti dell’accordo di Parigi sembrano sempre più pensiero magico, soprattutto l’unica soglia considerata davvero sicura, quella di 1.5°C di aumento della temperatura globale. Sono convinti di star vincendo, ma in realtà stanno perdendo, e l’unica alternativa credibile – dice il libro – è accettare il ricorso alla violenza e imparare a fare bombe.

Anni turbolenti

Sono stati mesi turbolenti. Il giorno in cui si è chiusa Cop26 di Glasgow, a metà novembre del 2021, nessuno avrebbe potuto immaginare l’arrivo del più fossile dei conflitti dai tempi della prima guerra del Golfo, con la corsa a nuovi fornitori, il caos energetico e soprattutto il ritorno della causa climatica sullo sfondo della storia, dove la breve finestra in cui era sembrava il focus di ogni leader democratico. Nel frattempo sono usciti due nuovi capitoli del sesto rapporto Ipcc, la sintesi della migliore scienza sul clima, che hanno solo infettato la dissonanza cognitiva nella quale ci troviamo, la condizione di essere sull’orlo di una catastrofe evitabile che il sistema politico ed energetico mondiale non riesce a evitare.

Nel 2019 i movimenti per il clima erano un’unica grande fotografia omogenea, le più grandi manifestazioni ambientaliste di sempre, pacifiche e fotogeniche. Tre anni, una pandemia e una guerra dopo, le azioni sono diventate più conflittuali, ma sempre al di qua della linea della violenza. Just Stop Oil ha rinunciato alla fotogenia per incatenarsi alle infrastrutture, i blocchi sono stati settimanali, ci sono stati migliaia di arresti. Una certa cupezza sembra aver pervaso il movimento, che ha sempre meno voglia di cartelli umoristici e di striscioni.

Il nome simbolo di questa stagione della post-allegria è quello di Wynn Bruce: se ne è parlato poco, ma nella bolla ecologista la sua storia è girata come un atto di dolore condiviso. Era un attivista per il clima molto spaventato dalla situazione, durante l’ultima giornata della Terra si è auto-immolato, dandosi fuoco davanti alla Corte Suprema di Washington. Una storia complessa e forse non del tutto decifrata, che però è risuonata molto.

In Italia la repressione delle forze dell’ordine si è già fatta trovare pronta al nuovo clima: a Milano tre attivisti di Fridays for Future sono stati brutalmente perquisiti con un’irruzione in stile anni Settanta in seguito a un’azione con scritta sul muro davanti a una controllata di Gazprom. A Roma tre membri di Extinction Rebellion poche settimane prima erano stati arrestati e processati per direttissima dopo un’azione al ministero della Transizione ecologica. È in questo complicato scenario che il libro di Andreas Malm è arrivato in libreria.

Il fronte pacifico

Bill McKibben è uno dei padri dell’ambientalismo contemporaneo ed è il principale organizzatore di quello nordamericano. È tra le persone più criticate – al limite della derisione – nel libro di Malm, per la sua professione di pacifismo. In un’intervista con questo giornale, lo stesso McKibben ha risposto in modo lapidario alla tesi del sabotaggio: «Le industrie fossili non aspettano altro che questo».

Il senso è che la principale risorsa dei movimenti per il clima è il capitale morale accumulato in questi anni, l’unione della forza quasi messianica di persone come Greta Thunberg e Vanessa Nakate avvolta intorno al contenuto rigorosamente scientifico del messaggio. In pochi anni sono riusciti a creare quello di cui un trattato con pochi vincoli e senza meccanismi di coercizione come l’accordo di Parigi aveva disperatamente bisogno: una base di consenso popolare.

Dal primo sciopero di Greta Thunberg e dal primo blocco urbano di Extinction Rebellion a Londra, entrambi nel 2018, il mondo è effettivamente cambiato, l’emergenza climatica è entrata nell’orizzonte della politica e degli elettori, la pressione democratica sta aumentando, come dimostrano le elezioni di Biden negli Stati Uniti o di Albanese in Australia. Lo scenario rimane fosco, le emissioni di gas serra nel 2021 hanno avuto l’aumento più brusco della storia e la resistenza dello status quo è strenua, ma una campagna incendiaria come quella invocata da Malm non farebbe che rinsaldarlo. A giocare con le bombe, vince sempre chi ha quelle più grandi.

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