Donald Trump è stato formalmente condannato per il caso che riguarda Stormy Daniels, diventando così il primo presidente degli Stati Uniti pregiudicato. Come già anticipato, il giudice di New York Juan M. Merchan ha deciso di non disporre la reclusione e anche di non porre restrizioni della libertà o obblighi di firma, un esito abbastanza raro per i reati contestati, ma che, ha spiegato il giudice, «sembra essere la soluzione più praticabile per assicurare la finalità», cioè per tenere conto delle funzioni presidenziali che presto Trump ricoprirà.

La cosiddetta “unconditional discharge”, una condanna senza pena di fatto, era secondo il tribunale «la sola sentenza legale che permettesse di emettere una condanna senza interferire con la più alta autorità dello stato».

Merchan ha letto la sentenza e ha fatto alcune considerazioni, incentrate sulla distinzione fra l’ufficio della presidenza, che gode di protezione legale, e il cittadino Trump, che invece risponde come tutti di fronte alla legge. «Questa corte non ha mai affrontato prima una combinazione di circostanze così unica e sorprendente. Questo è davvero un caso straordinario», ha detto il giudice, che a conti fatti non ha pronunciato l’animosa arringa demolitrice che i critici del presidente speravano di sentire.

«Trattato ingiustamente»

Trump ha assistito alla lettura in videocollegamento dalla sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida. Aveva accanto a sé l’avvocato Todd Blanche, già selezionato come numero due nel prossimo dipartimento di Giustizia, e quando gli è stata data l’opportunità di parlare ha fatto un confuso discorso difensivo in cui ha screditato i testimoni e attaccato gli inquirenti.

«Sono stato trattato molto, molto ingiustamente, e vi ringrazio», ha concluso il presidente eletto. Ora che il verdetto è stato emesso, Trump può presentare ricorso in appello. Ma non potrà concedere a sé stesso la grazia presidenziale: quel potere si limita ai reati federali, non a quelli statali.

Prima della sentenza uno dei procuratori, Joshua Steinglass, ha riassunto tutte le «prove schiaccianti» che hanno portato all’incriminazione, e ha aggiunto: «Lungi dall’esprimere qualunque tipo di rimorso per la sua condotta criminale, l’imputato ha deliberatamente espresso sdegno per le nostre istituzioni e lo stato di diritto», causando «danni duraturi alla percezione pubblica del sistema della giustizia penale e mettendo i funzionari della corte in pericolo».

I tentativi andati a vuoto

Il contenuto della sentenza non è sorprendente. Il giudice aveva già indicato che Trump avrebbe evitato il carcere per i reati di cui è stato riconosciuto colpevole, legati alla falsificazione di atti per coprire una relazione con l’ex pornostar Daniels, cosa che avrebbe danneggiato la sua prima campagna elettorale.

La sorpresa, piuttosto, deriva dal fatto che Trump non sia riuscito a evitare o ritardare questa circostanza, che arriva dieci giorni prima del suo re-insediamento alla Casa Bianca. Il presidente eletto ha provato con tutta la pervicacia di cui è capace a ritardare o aggirare la circostanza.

Per tre volte i suoi legali sono riusciti con varie strategie dilatorie a rimandare la sentenza, nella speranza di arrivare per accumulo oltre la data del 20 gennaio, quando l’immunità presidenziale avrebbe messo tutto in congelatore. Ma non è stato abbastanza.

L’ultimo tentativo è stato appellarsi alla Corte suprema con una procedura d’emergenza. Non era, nell’idea di Trump, un tentativo del tutto disperato, perché pensava – e forse pensa ancora, in generale – di poter contare su una corte con sei giudici conservatori contro tre liberal, e di quelli d’area ben tre sono stati nominati da lui nel precedente mandato. Inoltre, i giudici hanno recentemente emesso una sentenza che stabilisce, in un senso piuttosto estensivo, l’immunità per il presidente per ciò che compie nell’esercizio delle sue funzioni.

Trump e i suoi avvocati hanno volutamente interpretato in modo capzioso quella disposizione, convincendosi che rendesse il presidente eletto immune da qualunque cosa, e hanno cercato di sostenere presso la Corte Suprema che una decisione della stessa corte giustificasse la sospensione della sentenza. Ma la maggioranza dei giudici non la pensava così, e ha rifiutato il suo ricorso all’ultimo minuto dicendo che Trump avrebbe avuto l’opportunità di spiegare le sue ragioni «nel corso ordinario del processo d’appello».

La chiamata con Alito

A complicare ancora di più i giorni convulsi che hanno preceduto la sentenza c’è stata anche una telefonata con il giudice della Corte Suprema Samuel Alito, che è stata subito letta in connessione al suo caso giudiziario. In realtà, Trump ha telefonato ad Alito prima che i suoi legali si rivolgessero alla massima corte, circostanza del quale il giudice a quel punto – ha detto – non sapeva nulla.

Cosa voleva discutere con Alito il presidente eletto? A quanto pare di William Levi, un ex assistente di Alito che poi ha avuto una significativa carriera giudiziaria e ora si sta candidando per diverse posizioni nella macchina amministrativa.

Il problema è che gli uomini di Trump non lo vogliono fra i piedi, perché nella precedente amministrazione è stato capo di gabinetto di William Barr, allora fedelissimo procuratore generale e oggi reietto traditore che dev’essere cancellato. E assieme a lui i suoi lealisti.

Anche se non avessero davvero parlato del processo che lo riguarda, la relazione del presidente eletto con i giudici mostra uno dei molti aspetti problematici della sua concezione delle istituzioni, cosa che verosimilmente ci accompagnerà per i prossimi quattro anni e per tutti i procedimenti legali da cui saranno costellati.

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