Da Los Angeles il governatore democratico Gavin Newsom annuncia un’azione legale contro la Casa Bianca per fermare le tariffe. Intanto è tornato a farsi sentire Biden: «In cento giorni il presidente ha causato tanti danni e tanta distruzione». E il presidente torna a inveire contro Harvard: «Insegna solo odio e stupidità». Ma ora è anche il fronte interno a preoccupare il tycoon
Negli Stati Uniti i segnali di insofferenza verso Donald Trump da quando è rientrato alla Casa Bianca stanno crescendo di ora in ora. E insieme a loro, i primi veri ostacoli politici. La California, infatti, tramite il suo governatore Gavin Newsom, ha annunciato una causa contro l’amministrazione Trump con l’obiettivo di fermare i dazi.
Secondo Newsom, democratico e già tra le figure papabili per la leadership del partito, la Casa Bianca ha utilizzato illegalmente una procedura di emergenza (l’International Economic Emergency Powers Act) per adottare le tariffe. Le stesse tariffe che «stanno creando il caos tra le famiglie, le imprese e l’economia della California, facendo salire i prezzi e mettendo a rischio posti di lavoro», ha denunciato Newsom.
In sostanza, per il governatore californiano, Trump non aveva il potere di annunciare i dazi contro Cina, Messico e Canada né quelli del 10 per cento a tutti gli altri paesi. È un’iniziativa senza precedenti che avrebbe dovuto richiedere un’approvazione specifica da parte del Congresso. Da qui l’azione legale presso una corte federale e la richiesta di bloccare le tariffe.
Anche perché la California teme danni pesanti: più del 40 per cento delle sue importazioni provengono da Cina, Messico e Canada.
Tariffe e cavie
Ma Trump sui dazi tira dritto. O meglio, tra minacce, parziali retromarce e rinvii, vuole dimostrare comunque il suo ruolo da protagonista davanti ai suoi elettori. La sua presenza non prevista, quasi un’intromissione, nei negoziati tra funzionari americani e giapponesi in corso a Washington ne è una conferma. Vuole supervisionare ogni aspetto del dossier.
Il Giappone, come scritto dal Financial Times, si presterà da “cavia” della strategia commerciale degli Usa, essendo il primo paese a ottenere colloqui diretti con Washington. Cavia, ma non un agnello sacrificale.
Tokyo ha avvertito che non ci saranno concessioni rapide da parte giapponese per raggiungere un accordo. Intanto, però, il primo risultato è arrivato: la casa automobilistica Honda si è detta pronta a spostare la produzione del modello Civic dal Giappone agli Stati Uniti.
Il fronte interno
Ma è il fronte interno quello a cui è più interessato Trump, consapevole che solo da lì possono arrivare vere minacce. I malumori su come si sia mossa la sua amministrazione in questi primi tre mesi cominciano ad affiorare. Il Congresso è in pausa per due settimane, i suoi membri sono tornati nei rispettivi territori. Tuttavia, l’ordine di scuderia del partito repubblicano è di evitare incontri pubblici per non prestare il fianco a possibili dimostrazioni di rabbia o polemiche da parte di elettori o manifestanti.
Scenario puntualmente accaduto a quei membri che non hanno seguito le indicazioni. Come il senatore Chuck Grassley, a cui in Iowa è stato chiesto con insistenza da alcuni cittadini delusi perché non si fosse opposto ai piani di Trump.
O come la deputata Marjorie Taylor Greene, tra le figure trumpiane più controverse, che in Georgia ha risposto criticamente ad alcune domande in un’assemblea pubblica, durante la quale sono scattate proteste e arresti.
L’affondo di Joe
Oltre all’attivismo di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, tra i democratici è tornato a farsi sentire Biden. Da Chicago, l’ex presidente è intervenuto in pubblico per la prima volta da quando ha lasciato la Casa Bianca. «In cento giorni questa nuova amministrazione ha causato tanti danni e tanta distruzione. È quasi sconvolgente pensare che possa essere accaduto così presto», ha rimarcato Biden, prima di difendere il Social security, un programma pubblico per la disabilità e le pensioni che Trump ha tagliato.
Tra i tagli eseguiti con l’accetta da The Donald, anche il congelamento di 2,2 miliardi di dollari di fondi ad Harvard. La guerra mossa da Trump contro le più prestigiose università americane continua e ieri è arrivato un nuovo affondo. «Harvard è una barzelletta, insegna odio e stupidità», ha tuonato il presidente, anche qui, stuzzicando il mondo Maga (Make America Great Again) che mediamente non è legato alle migliori università del paese.
Ucraina e Iran
Perché sembra assurdo, ma quasi ogni mossa di Donald Trump da quando è ridiventato presidente degli Stati Uniti può essere spiegata con la volontà di rafforzare il suo consenso tra i repubblicani più radicali.
A partire dal raffreddamento delle relazioni con l’Ucraina, le cui sorti poco interessano all’elettore di Trump, e dai negoziati con la Russia, che finora hanno evidenziato solo un allineamento tra Washington e Mosca.
Proprio ieri la Casa Bianca ha negato possibili viaggi del presidente a Kiev, mentre oggi a Parigi Emmanuel Macron vedrà il segretario di Stato Marco Rubio e l’inviato speciale di Trump Steve Witkoff per discutere del conflitto.
Anche la ricerca di un accordo in tempi brevi con l’Iran sul nucleare, per Trump rientra tra i potenziali ottimi risultati da sventolare in patria. Sulle trattative con Teheran però sono emerse divisioni all’interno della sua stessa squadra, tra chi vuole un approccio più energico e senza compromessi, come Rubio o il consigliere per la Sicurezza nazionale Mike Waltz, e chi invece pensa sia preferibile una postura più diplomatica, come il vice J.D. Vance. E i funzionari di Trump dovranno affrontare anche gli strascichi delle deportazioni dei presunti membri di gang venezuelane a El Salvador.
Un giudice ha infatti stabilito che vi è una «causa fondata» perché la Casa Bianca sia accusata di oltraggio alla corte per non aver rispettato la sentenza che sospendeva le deportazioni. Anche questo è il fronte interno.
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