La visita fulmine di Donald Trump in Israele ed Egitto nella giornata di lunedì 13 ottobre corrisponde alla transizione dalla fase uno della sua road map, spettacolare ed immediata nella sua esecuzione, a capitoli che si preannunciano più tortuosi ed accidentati del processo di pace.

Il presidente americano non passerà nemmeno una notte nella suite dell’hotel King David con vista sulle mura della Città Vecchia di Gerusalemme, tradizionale residenza dei capi di stato in visita in Israele. Dedicherà la mattinata a raccogliere il plauso per il ruolo centrale giocato nel rilascio degli ostaggi, con passerelle all’aeroporto Ben Gurion e alla Knesset.

Poi, quattro ore dopo l’arrivo, verso le 13, il deus ex machina della festa sarà di nuovo in partenza alla volta dell’Egitto, dove si aprono i giochi per negoziare il futuro della Striscia di Gaza, con la cerimonia della firma dell’accordo di attuazione del piano di pace.

Quale comitato

Secondo la lettera del suo famoso piano in venti punti Gaza dovrebbe essere governata da un comitato palestinese tecnocratico che si occupi dell’amministrazione giornaliera del territorio. A supervisionarlo ci sarebbe però un “Board of Peace”, cioè un consesso di dignitari internazionali dei quali ad oggi conosciamo solo due nomi: l’ex premier inglese Tony Blair e lo stesso Trump.

La scelta degli altri membri sarà probabilmente un tema di discussione sul tavolo dei venti capi di stato o di governo attesi a Sharm El-Sheikh per assistere alla (breve) cerimonia di consacrazione dell’accordo. Fra loro il padrone di casa al-Sisi affiancato appunto da Trump, poi il francese Macron, il cancelliere tedesco Merz e la stessa Meloni. Secondo il sito americano Axios alla lista degli invitati la Casa Bianca ha aggiunto Spagna, Giappone, Azerbaijan, Armenia, Ungheria, India, El Salvador, Cipro, Grecia, Bahrain, Kuwait e Canada. Non solo: ci si attende che anche il presidente dell’Autorità nazionale, Abu Mazen, si unisca alla compagnia.

Nella giornata di domenica Mohammad Nazzal, membro dell’ufficio politico di Hamas, ha espresso perplessità riguardo questa formula di tutela politica in un colloquio con le agenzie russe: «Non possiamo permettere che la Striscia di Gaza torni alla vecchia idea coloniale di avere un commissario per la sua amministrazione. Il popolo palestinese ha le capacità e i mezzi per cavarsela senza inviati di alto livello», ha detto. Non solo: Nazzal è anche tornato a mettere in discussione il disarmo dei miliziani. «La questione del possesso delle armi da parte del movimento è strettamente connessa all’occupazione, e gli appelli a disarmare, a deporre le armi, se significano in sostanza disarmare la resistenza, sono inaccettabili».

Nondimeno, una fonte diplomatica di uno dei paesi mediatori sentita da Domani spiega di capire il clima di ottimismo attuale, ma di nutrire dubbi quanto alla formula istituzionale descritta dal piano. «Dopo questa storia di due anni, con la distruzione totale, la gente tira un sospiro di sollievo con l’inizio del cessate il fuoco e l’ingresso degli aiuti, è già qualcosa», afferma. «Ma poi, l’amministrazione e tutto il resto, non sarà cosa facile: è assurdo governare dall’alto, funzionerà una cosa del genere?».

Ancora più delicato è il capitolo sicurezza: secondo la lettera del piano, Trump dovrebbe fondare in tandem con “partner arabi e internazionali” una International Stabilization Force (Isf) che avrebbe il monopolio dell’uso legittimo della violenza. Nelle sue fila dovrebbero esserci contingenti dei paesi mediatori, come la Turchia.

Secondo quanto riportato dal giornale turco filogovernativo Milliyet, le forze turche sul campo sarebbero composte da “elementi militari e civili”. Il quotidiano Aksam ha utilizzando il titolo “Gaza sarà affidata a Mehmetcik”, un riferimento nazionalista e islamico al soldato turco. L’Isf a sua volta addestrerebbe una nuova forza di polizia palestinese, tutta da inventare, che avrebbe il controllo del territorio nel lungo termine. Hamas spera di confluire nelle fila di questo nuovo soggetto, salvando anche parti del suo arsenale.

Distruggere i tunnel

L’ultradestra israeliana, da parte sua, spera ancora di mandare tutto all’aria accusando Hamas di non aver obbedito alle clausole di disarmo e fuoriuscita dei suoi leader dalla Striscia. Il ministro della difesa Israel Katz, un accolito di Netanyahu noto per il linguaggio incendiario espresso anche sui social media, ha dichiarato che «la grande sfida per Israele dopo la fase di rilascio degli ostaggi sarà la distruzione di tutti i tunnel terroristici di Hamas a Gaza». Una missione sì prevista dal piano, ma affidata a terzi, e difficile da conciliare con il ritiro israeliano, previsto in fasi, e la fine delle ostilità.

Trump ha garantito ai mediatori Qatar, Turchia ed Egitto che Israele non rilancerà la guerra sfruttando la prima polemica su presunte inottemperanze da parte di Hamas, ed è probabile la Casa Bianca non voglia giocarsi la credibilità per soddisfare qualche ministro di gabinetto israeliano. È il concetto espresso in un editoriale del giornalista di Haaretz Chaim Levinson, intitolato “Un messaggio al ministro di estrema destra Smotrich: Trump ha parlato – la guerra a Gaza è finita”. A detta di Levinson, «la fine della guerra significa che il metodo utilizzato finora da Israele – ricorrere alla forza militare per risolvere le questioni negoziali – ha fatto il suo corso». Non resta che sperare che le prossime settimane gli diano ragione.

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