Recep Tayyip Erdogan è un figlio della Turchia. Quella più profonda e vera, non la Turchia delle sfavillanti e turistiche città costiere, ma dei villaggi delle aree anatoliche che guardano al mar Nero, dove la vita rurale prevale su quella commerciale e imprenditoriale. Non si comprendono queste origini se si dice che è nato a Istanbul, perché questa è una città dai mille volti e dalle mille anime, che spesso non sono destinate a incontrarsi.

Recep Tayyip Erdogan è nato nel 1954 nel distretto di Kasımpaşa da genitori emigrati dall’Anatolia centrale (anche se alcuni dicono sia nato in Anatolia e sia emigrato con la famiglia a Istanbul solo nella prima adolescenza) e si definisce come un kasimpaşali.

Questa espressione gergale indica i “cattivi ragazzi” che conoscono la vita di strada e rispettano un rigido codice d’onore, ma significa anche che Erdogan ha chiara memoria della solidarietà con cui la comunità di quest’area, inclusa nella ricca municipalità di Beyoğlu ma economicamente molto meno agiata, affronta le asperità del quotidiano.

Nei lunghi periodi trascorsi a Rize, nella regione del mar Nero, inoltre, frequenta per volere del padre i religiosi locali, noti per la loro visione conservatrice dell’Islam. L’educazione religiosa del giovane Tayyip si compie anche nell’istituto vocazionale (Imam Hatip) che lascia solo nel 1973 per accedere alla scuola d’economia di Aksaray e poter così intraprendere una carriera differente da quella di teologo cui quest’ultimo lo avrebbe destinato, laureandosi in economia e divenendo in breve tempo consulente e dirigente nel settore privato.

Influenze politiche

Politicamente, la carriera di Erdogan risente dell’influenza di Necmettin Erbakan e dei partiti di ispirazione religiosa che egli fonda (e ri-fonda a seguito degli scioglimenti da parte della Corte costituzionale) durante gli anni Ottanta e Novanta del Ventesimo secolo, il più noto dei quali è forse il Refah Partisi (partito del benessere).

Il revival religioso cui si assiste in questo periodo si basa essenzialmente sulla teoria del Milli Görüş (sguardo nazionale), secondo cui la Turchia può porsi come rilevante attore internazionale solo proteggendo i propri valori. A questa teoria si inspirano anche le attività dell’Unione nazionale degli studenti turchi (Milli Turk Talebe Birliği, Mttb), cui Erdogan partecipa da adolescente e di cui persegue la peculiare strategia di protesta che consiste nel disporsi alla preghiera in reazione alle cariche della polizia.

Dopo il servizio militare, Erdogan entra quindi a far parte ufficialmente del Refah e ne guida la sede del distretto di Beyoğlu dal 1984; dieci anni dopo, è sempre come esponente del Refah Partisi che vince le elezioni a sindaco della grande municipalità di Istanbul.

Durante gli anni da sindaco si costruisce una solida credibilità politica, risolvendo problemi storici della città, come la gestione dei rifiuti e dei trasporti pubblici, e avviando progetti di riqualificazione urbana così profondi da aver ridisegnato il volto di intere aree.

La condanna che gli vieta a vita di ricoprire cariche pubbliche in cui incorre nel 1998 per attentato al secolarismo avendo commentato durante un comizio nella provincia di Siirt il soft coup dell’anno precedente con i versi di Ziya Gökalp (scrittore turco a suo tempo ispiratore dello stesso Mustafa Kemal): «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e i fedeli i nostri soldati», sembra porre fine alla sua carriera.

In realtà, nel 2001, Erdogan fonda il Partito della giustizia e dello sviluppo (Adalet ve Kalkınma Partisi – Akp) che ottiene la maggioranza assoluta nelle elezioni del 2002. La condanna impone tuttavia a Erdogan di attendere l’amnistia del 2003 per poter partecipare a elezioni suppletive, vincere un seggio in parlamento e ottenere la carica di primo ministro, che detiene sino al 2014 quando, sulla base dell’emendamento costituzionale per l’elezione diretta del presidente della Repubblica introdotto nel 2007, diviene il primo presidente direttamente eletto dal popolo turco, da quest’ultimo riconfermato nel 2018.

Tra pubblico e privato

Recep Tayyip Erdogan sembra aver conquistato più volte le folle grazie al proprio carisma personale e a un sapiente utilizzo del proprio vissuto personale a fini mediatici: le umili origini e la capacità di ascesa sociale gli hanno consentito di presentarsi agli elettori come una versione turca dell’american self-made man; l’educazione religiosa gli consente di fare riferimento senza errori alle fonti religiose e di mostrare una profonda comprensione per le conseguenze che il secolarismo militante ha avuto sugli strati più conservatori della popolazione; l’esperienza da giocatore nella squadra di calcio del Kasımpaşa Spor Kulübü viene ricordata nelle numerose battaglie “salutistiche” contro il fumo e il consumo di alcol.

Egli è inoltre capace di un eloquio mediaticamente efficace fondato sull’utilizzo di slogan semplici e facilmente memorizzabili, il più noto dei quali è forse: «Una nazione, una bandiera, una patria, uno Stato» (Tek Millet. Tek Bayrak. Tek Vatan. Tek Devlet), urlato a gran voce mostrando in aria quattro dita, in quello che ormai è divenuto il saluto abituale al suo popolo. Nel tempo, la retorica utilizzata da Erdogan ha assunto sfumature crescentemente populiste in cui l’élite cui i veri rappresentanti del popolo, ossia l’Akp, si contrappongono è individuata dapprima nei kemalisti e nell’esercito e, all’indomani del fallito golpe, in una non chiaramente identificata coalizione di agenti stranieri in combutta contro il benessere della Turchia.

Mediaticamente, Erdogan è anche un sapiente utilizzatore di immagini che comunicano agli elettori i suoi valori morali e la sua probità: così, non sono infrequenti video o foto in cui lo si vede accarezzare bambini o visitare gli anziani accanto alla velata moglie Emine. Una forma di comunicazione efficacemente utilizzata anche all’estero, soprattutto durante i viaggi nel continente africano. Nel 2011, ad esempio, le immagini del presidente che predispone piani di assistenza per la popolazione somala colpita da una grave carestia mentre la first lady incontra la popolazione locale e ne raccoglie le richieste e la gratitudine hanno contribuito a consolidare il legame con questo popolo, che ha inviato calorosi auguri di pronta guarigione quando la coppia presidenziale ha contratto il Covid.

Il contributo dei famigliari sembra rilevante nella parabola politica del presidente. La moglie Emine, anche lei figlia di immigrati ed educata in una scuola vocazionale femminile, incontrata negli anni dell’attivismo studentesco e che sposa nel 1978, condivide con lui le tappe più importanti della carriera politica rimanendo, velata e pia, al suo fianco e dedicandosi ad attività caritatevoli per le donne e i poveri, tracciando una strada che sarà seguita dalla figlia Sümeyye, imprenditrice, consulente politica del padre per lunghi periodi e co-fondatrice dell’associazione e fondazione femminile KADEM.

La sua vita pubblica si intreccia strettamente con quella privata, avendo sposato Selçuk Bayraktar, dalla cui azienda di famiglia sono prodotti i droni Bayrak di cui molto si parla anche con riferimento alla vicenda ucraina, ed essendo stata implicata – tuttavia senza reali imputazioni o conseguenze giudiziarie – in alcuni scandali legati al riciclaggio di denaro con il fratello Bilal, inquisito e poi prosciolto per genericità delle accuse anche dalla procura di Bologna.

Meno visibili sono la figlia maggiore Esra, che ha sposato il controverso ministro delle Finanze Berat Albayrak, e il primogenito Burak, che sembra aver preferito una vita imprenditoriale più lontana dalla politica pur non essendo mancate inchieste sui favori che la sua impresa navale avrebbe ottenuto dall’esecutivo turco.

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La svolta autoritaria

Per comprendere pienamente la parabola politica di Erdogan, alcune note di contesto devono riguardare le evoluzioni del partito da lui fondato. Alle origini, infatti, l’Akp si presenta sulla scena politica come un partito nuovo, che garantisce ai cittadini trasparenza e incorruttibilità in virtù dei valori morali di cui si dichiara portatore, e che propone un uso politico della religione più simile ai partiti conservatori europei come la Democrazia cristiana o Cdu che non alle precedenti formazioni dell’Islam politico turco.

In questo periodo si consolida anche l’alleanza con il movimento Hizmet di Fetullah Gülen, i cui adepti trovano crescenti spazi nelle forze di polizia e nelle istituzioni amministrative e culturali del paese. Progressivamente, tuttavia, il potere dello stato parallelo creato da Gülen viene visto con sospetto dalla leadership dell’Akp, sino alla definitiva rottura del 2016, quando Hizmet viene considerato il principale artefice del fallito golpe, e si attua una sistematica epurazione dei suoi adepti, ormai considerati a tutti gli effetti membri di una organizzazione terroristica, la Fethullahçı Terör Örgütü (FETÖ).

Le modalità con cui avvengono queste epurazioni, che palesano importanti criticità nella tutela dei diritti e hanno luogo al limite della legittimità giuridica coinvolgendo anche individui evidentemente lontani dal movimento ma in chiara opposizione all’Akp, mostrano tutta la deriva autoritaria che la Turchia sta attraversando. Una deriva ancora più evidente all’indomani dell’approvazione della riforma della forma di governo, che ha consentito l’introduzione di un presidenzialismo in cui il principio della separazione dei poteri e il rispetto dello stato di diritto sono fortemente messi in discussione, anche grazie all’attribuzione al presidente del potere di emettere decreti in un ampio numero di materie, riducendo così gli spazi per la funzione legislativa del parlamento.

È stato con un decreto, tra l’altro, che si è stabilito il discusso recesso dalla c.d. Convenzione di Istanbul per il contrasto alle violenze di genere, per la cui entrata in vigore lo stesso governo dell’Akp si era battuto nel 2011.

A ben vedere, il recesso si porrebbe come una mossa politica volta a tacitare i timori degli strati più conservatori della popolazione verso una concezione di “genere” non binaria che il governo sembra sostenere e che si allinea alle politiche per la tutela della famiglia avviate negli ultimi anni, in cui la posizione delle donne è sempre più complementare a quella degli uomini.

Da parte del governo si è tuttavia sottolineato come il recesso dalla Convenzione, peraltro per motivazioni affini a quelle avanzate da altri paesi europei che ne stanno rifiutano la firma o la ratifica, non debba essere intesa come una minore attenzione ai diritti delle donne e al contrasto delle violenze nei loro confronti, e che una nuova Convenzione, probabilmente denominata Convenzione di Ankara, è in via di elaborazione. Il recesso, inoltre, non comporta l’abrogazione della legge sulle violenze sulle donne del 2012, approvata proprio per adempiere agli obblighi internazionali prevista dalla Convenzione di Istanbul.

Il recesso sembra tuttavia evidenziare un allontanamento dai valori del Consiglio d’Europa che si inserisce nella più generale modifica della posizione del paese in politica estera, caratterizzata da un progressivo allontanamento da partner consolidati, come gli Stati Uniti e l’Unione europea. Lo sguardo turco sembra ormai volgere sempre più a oriente. È in quest’ottica che devono leggersi le collaborazioni con la Cina – che hanno avuto il più evidente esito nel ponderoso invio di vaccini Sinovac con cui la popolazione turca è stata vaccinata all’inizio della pandemia – e con la Russia, con cui le storiche ostilità risalenti all’epoca ottomana sembrano superate e da cui deriva il ruolo di mediatore indiscusso che Erdogan sta svolgendo nel conflitto ucraino.

Progetti urbanistici

Da primo ministro e poi da presidente, infine, Erdogan ha lasciato il proprio segno sull’urbanistica di Istanbul e Ankara. È sotto questo profilo che devono annoverarsi la costruzione del terzo ponte sul Bosforo e del nuovo aeroporto di Istanbul. Progetti controversi, che hanno attirato le critiche di molti ambientalisti per il rilevante impatto ambientale e che, proprio per questi motivi, si ricollegano alle ragioni che hanno fatto da scintilla per il fuoco che nel 2013 è divampato con le rivolte di Gezi Parki, originate da un progetto volto a ridisegnare l’area di piazza Taksim.

Nonostante l’importanza di queste rivolte, la piazza ha oggi un aspetto decisamente differente e un’imponente moschea fronteggia il monumento alla Repubblica posto alla fine di Istiklal Caddesi (via Indipendenza), opera dello sculture italiano Pietro Canonica. Ancora più imponente, peraltro, è la maestosa moschea costruita sulla collina di Çamlıca i cui sette minareti competono, per numero e altezza, con quelli della Moschea Blu sul lato europeo.

Fra i controversi progetti edilizi per Istanbul sostenuti dal presidente si annovera, infine, Kanal Istanbul, una mastodontica opera che collegherebbe il mar Nero al mar di Marmara, costituendo una strada alternativa al Bosforo e non soggetta alla Convenzione di Montreux, la cui costruzione sembra procedere nonostante la crisi economica. Ad Ankara, invece, è l’imponente complesso presidenziale, che rivaleggia con lo storico mausoleo di Atatürk (l’Anitkabir), a far discutere, soprattutto per i suoi ingenti costi di realizzazione.

È in ragione di tutte queste criticità che la maggior parte dei partiti politici che non appartengono alla coalizione di governo Akp-Mhp ha promesso ai propri elettori un ritorno al parlamentarismo e una maggiore attenzione al rispetto dello stato di diritto, a cominciare dalla garanzia dei diritti fondamentali, qualora dovesse ottenere la maggioranza necessaria a governare.

Verso le elezioni del 2023

È probabilmente nella consapevolezza della rilevanza di questa sfida che Erdogan, ben conscio dell’assenza – almeno al momento – di una figura alternativa tra le file del suo partito che possa sostituirlo nella leadership e nel gradimento popolare, vuole partecipare da candidato presidenziale alla tornata elettorale. Questo punto merita una breve digressione per sottolineare le differenti interpretazioni delle disposizioni costituzionali in materia.

Formalmente, infatti, la Costituzione vieta la candidatura per il terzo mandato presidenziale ed Erdogan, che ha già ricoperto questo incarico per due volte, sarebbe incandidabile. Secondo una controversa interpretazione, tuttavia, la modifica della forma di governo avrebbe rappresentato una evoluzione del sistema tale da giustificare una tabula rasa nel conteggio dei mandati in ragione della quale Erdogan avrebbe servito il paese da presidente solo per il mandato cominciato nel 2018.

Le prossime elezioni, previste per il 2023, si annunciano quindi come un punto nodale per il futuro della Turchia giacché esse potranno sancire la definitiva consacrazione del progetto dell’Akp per la nuova Turchia oppure segnarne la fine. In questa scelta, che si annuncia come fondamentale per le sorti future del paese, un ruolo di primo piano spetterà alle giovani generazioni, nate e cresciute durante gli anni di governo dell’Akp, che si recheranno alle urne per la prima volta.

Se molto visibili sono state le proteste degli studenti in anni recenti, come nella vicenda legata alla nomina presidenziale del rettore dell’Università Boğazici, meno note sono le preferenze politiche dei giovani delle aree più interne del paese, che potrebbero preferire un cambiamento dell’orizzonte politico anche come soluzione alla crisi economica, che peraltro rischia di alienare al presidente anche i favori della borghesia conservatrice che egli stesso ha contribuito a far nascere.

La Turchia, dunque, è ancora una volta a un bivio e il percorso che la popolazione sceglierà di intraprendere andrà analizzato con attenzione.

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