La vittoria di Recep Tayyip Erdogan al secondo turno è data quasi per scontata in Turchia, ma la rielezione del presidente e la formazione di un governo ancora più conservatore di quello precedente incombono come un’ombra sulle donne del paese. Per loro, il successo di Erdogan rappresenta una minaccia a quei risultati raggiunti negli ultimi anni dai movimenti femministi nonostante processi interminabili, arresti arbitrati e leggi sempre più repressive contro ogni forma di dissenso.

«Solo nell’ultimo anno ci sono state 22 operazioni di polizia contro le associazioni che si occupano di diritti delle donne», spiega Ruken Eurgunes, attivista della ong Rosa Luxemburg Foundation di Diyarbakir, capitale del Kurdistan turco. «Persino le case sicure per le vittime di violenza gestite da noi curde sono state chiuse dopo la deposizione del sindaco». A guidare il Municipio da agosto del 2019 è un commissario prefettizio nominato dal governo dopo che il primo cittadino eletto quello stesso anno è stato accusato di legami con organizzazioni terroristiche e rimosso dal suo incarico. Un’accusa comunemente usata per ribaltare il risultato delle elezioni locali nelle città in cui il partito di Erdogan è stato sconfitto.

I pericoli

«Da quel momento fare attivismo è diventato sempre più difficile, soprattutto qui in Kurdistan. Al primo turno abbiamo votato per la pace e per i diritti, ma come si può vincere in un paese in cui non esiste la democrazia?». La delusione e il senso di sconfitta sono ben visibili sul volto di Ruken. Mentre parla si accende una sigaretta dopo l’altra e ogni tanto un lungo sospiro interrompe il suo racconto. «Ho paura di finire in galera, certo, ma non ho intenzione di arrendermi e nonostante tutto andrò comunque a votare al secondo turno. Ho una figlia di otto anni, non voglio che cresca in un paese in cui non ha diritti». La vittoria di Erdogan metterebbe anche la parola fine al ricongiungimento della famiglia di Ruken. Sua madre, anche lei attivista, è dovuta fuggire in Svizzera con il marito sette anni fa per evitare il carcere e come tanti confidava nel successo dell’opposizione, data in vantaggio dai sondaggi pre-elettorali. Il suo desiderio di riabbracciare i propri cari e fare ritorno nella propria città natale però rischia di non avverarsi mai e anche Ruken potrebbe essere costretta all’esilio. «Per ora cerco di non pensarci. Se tutti andiamo via chi rimarrà qui a lottare?».

Tra le persone che negli anni hanno scelto di lasciare il paese c’è anche Delal, donna curda di appena trent’anni residente come rifugiata politica in Italia e tornata nel sud-est turco per seguire le elezioni. Anche lei ha sperato fino all’ultimo nella vittoria dell’opposizione e in un futuro diverso per le donne e per la minoranza di cui fa parte. «Per me sarà più difficile entrare in Turchia, ma il peggio è per chi rimane qui», spiega Delal mentre con il capo fa un cenno verso le persone che passeggiano per le strade assolate del centro storico di Diyarbakir. La stessa preoccupazione è visibile negli occhi di Cansu, architetta di 25 anni impiegata in un’azienda locale. «Il mio sogno è di poter finalmente svolgere il mio lavoro in libertà, ma in questo paese è impossibile costruire qualcosa che non rispetti i canoni imposti dal governo. Non c’è spazio per il nuovo. Dopo queste elezioni ho anche paura che la Turchia diventi come l’Iran, soprattutto per le donne». Mentre parla, Cansu stringe nervosamente le mani l’una nell’altra, lo sguardo già rassegnato nonostante la giovane età.

Meno libertà

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Il timore di una stretta sui diritti delle donne e di un’ulteriore limitazione della presenza femminile nello spazio pubblico preoccupa anche Bulut, che a Istanbul lavora come giornalista per uno dei pochi giornali ancora liberi dal controllo governativo. «È incredibile che la metà del paese voti ancora per Erdogan», afferma con rabbia la giornalista mentre cammina a passo svelto per le strade piene di bar di Kadikoy. «Continuare a fare questo lavoro sarà ancora più difficile. Gli editori indipendenti sono già a rischio chiusura e con il parlamento appena eletto i diritti di noi donne sono gravemente in pericolo». Bulut fa rifermento in particolare all’elezione di cinque deputati del Refah Parti, formazione ultra-conservatrice alleatasi con Erdogan dietro la promessa di cancellare la legge 6264 per la prevenzione della violenza sulle donne, e di altri due esponenti di Hüda Par. Quest’ultimo partito, di ispirazione islamista sunnita, è il diretto successore dell’Hezbollah turco, passato alla storia per le violenze e gli omicidi commessi negli anni Novanta in Kurdistan ai danni di poliziotti, attivisti, politici e soprattutto donne. Il ricordo di quel periodo di violenze è ancora vivo nella memoria collettiva del paese e nel dibattito pubblico, tanto che si è tornati ancora una volta a parlare del caso di Konca Kuriş, attivista uccisa da Hezbollah nel 1999 a Konya dopo 38 giorni di tortura.

Ma per Melek Önder, una delle portavoce della Piattaforma contro i femminicidi, non tutto è ancora perduto. «La metà del paese è contro Erdogan e le sue politiche. Anche se vincesse, ci saranno comunque milioni di cittadini pronti a difendere i diritti delle donne. Abbiamo fatto molti passi avanti negli ultimi dieci anni e non torneremo indietro». Il movimento femminista ha saputo coinvolgere nelle sue battaglie anche le donne conservatrici, dimostrando che quella di maggiori diritti è una richiesta ormai trasversale all’interno della società turca.

In effetti, stando ai risultati del primo turno, sempre meno persone condividono la visione misogina e patriarcale rappresentata da Erdogan e dai suoi alleati, ma i valori conservatori e religiosi sono un elemento costitutivo del dna del paese. L’esito delle urne di domenica decreterà quale di queste due anime ha maggiore forza di mobilitazione in Turchia. «La vita per molti continuerà come sempre anche dopo le urne», conclude Cansu, «ma per noi donne non sarà così».

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