A meno di colpi di mano per nulla da escludere, la crisi ucraina pare destinata a prolungarsi in un teatro massmediatico certo ad alto rischio, però utile ai due maggiori contendenti, Mosca e Washington, almeno fin quando tintinnii di spade e clangori d’armi ferree non conducessero a scontri armati. In ogni caso il wargame russo-americano pare un punto di svolta nella storia di questo continente, per almeno tre motivi.

Vladimir Putin ha abrogato il galateo europeo della globalizzazione dimostrando che un nano economico però fornitore di energia e dotato di straripante forza militare non solo non è addomesticabile dal potere del denaro ma può permettersi di giganteggiare, incutere timore, ricattarci, conquistare territori, sovvertire le gerarchie internazionali.

Dopo settantasette anni di relativa pace la prospettiva di una guerra sull’uscio di casa, e forse anche al di qua, giunge agli europei tanto improvvisa e sgradita che la protezione di chi con la guerra ha dimestichezza, gli Stati Uniti, pare d’un tratto altamente desiderabile.

Gli americani non moriranno per Kiev, su questo Joe Biden è stato fin troppo esplicito, ma intanto i marines atterranno in Polonia, nel Baltico, di nuovo nella parte di insostituibili difensori del mondo libero. E di contro, la palese inconsistenza della Ue azzoppa in partenza l’idea di una “autonomia strategica” degli europei dalla Nato, cioè da Washington.

In novembre la Commissione europea aveva chiesto ai governi dell’Unione di concordare gli strumenti più idonei per iniziative nei settori della difesa e della sicurezza esterne all’Alleanza atlantica. L’europeismo “forte” si attendeva ricadute consistenti, tanto politiche quanto economiche (per esempio nella ricerca in cibernetica). Ma adesso quel progetto perde slancio, il Corriere della Sera si affretta a dichiararlo morto e chi insistesse si troverebbe in Italia il cammino sbarrato dalla singolare alleanza tra l’atlantismo di ispirazione americana e la popolarissima tendenza ad estromettere la guerra dall’orizzonte degli eventi mediante generoso impiego di wishful thinking.

Gli effetti sull’Italia

Franco Frattini, ex ministro degli Esteri. Foto LaPresse

Così la crisi ucraina potrebbe produrre una doppia rinuncia: Kiev sacrificherebbe la piena sovranità, per non irritare l’orso russo; e l’europeismo desisterebbe dal proposito di riequilibrare i rapporti di forza in seno all’Alleanza atlantica. Tutto questo non potrà non riflettersi sulla politica italiana.

Se n’era già avvertito un contraccolpo durante la scomposta corsa al Quirinale, quando Pd e renziani hanno sventato la candidatura di Franco Frattini contestandogli, tra i diversi motivi adducibili, un “inadeguato profilo atlantista” difetto a quanto pare invalidante in quel torneo.

Chi ricorda il Frattini americano, timido ministro degli Esteri durante l’occupazione statunitense dell’Iraq (ancorché intempestivo: il giorno prima che accadesse, garantì che mai i marines sarebbero entrati a Falluja) è rimasto assai sorpreso nello scoprire che la subalternità a Washington era solo una postura: Frattini in realtà simpatizza per i russi.

Chi è oggi un atlantista?

Foto AP

Avrebbe gettato la maschera quando, intervistato, ha sostenute tesi sulla crisi ucraina apparse assai sospette al centrosinistra. Ma poiché alcune di quelle idee sono rintracciabili anche nel sito di Foreign Affairs, non esattamente una rivista eterodiretta dal Kgb, un dubbio rimane: cos’è oggi un atlantista? Ora, è pur vero che il dizionario politico italiano è tanto originale e approssimativo da risultare quasi intraducibile all’estero, ma poiché l’atlantismo è un pilastro della nostra politica estera, dovremmo finalmente decidere a cosa corrisponda.

Se stiamo a una prassi ereditata dalla Guerra fredda, caratteristica peculiare dell’atlantismo italiano è la rinuncia a contrastare le posizioni di Washington, e più spesso ad allinearsi con disciplina, perfino con slanci non richiesti.

Dopo l’11 settembre grandi media e politica nostrani adottarono senza discutere il vocabolario dell’essenzialismo cavalcato dall’amministrazione Bush – i nostri valori, la nostra cultura, la nostra civiltà - fino ad entusiasmi islamofobici (non tutti i musulmani sono terroristi ma tutti i terroristi sono islamici) d’una trivialità non prevista neppure dalla retorica della war on terror americana.

Ora sembra nuovamente risuonare la tromba che chiama il nostro giornalismo atlantista nella trincea della nuova Guerra fredda: si moraleggia sull’ignavia tedesca, sulla dipendenza del continente dal gas russo, sulla nostra indifferenza alla repressione degli uiguri, sulla pochezza di un’Europa balbettante a petto del parlare chiaro e forte dell’America… ragionamenti incontestabili, che però scontano una doppia omissione.

Un atlantismo che fosse anche europeista non può ignorare che le Americhe sono due. Quella di Donald Trump potrebbe conquistare quest’anno il Congresso e in seguito la Casa Bianca (l’ultimo sondaggio le accredita il 47 per cento dei voti contro il 44 dei Democratici).

È un’America nazionalista con tratti illiberali, fondamentalisti, razzisti; persegue l’America first fino a ignorare gli interessi nazionali degli alleati; e non nasconde il proposito di indebolire l’Unione usando allo scopo gli europei che più le somigliano (sicché anche l’Europa sono due). 

Perché non prenderne atto e immaginare che tanto la Ue quanto l’Alleanza atlantica abbiano una doppia geometria? Il nucleo dell’Europa europeista si doterebbe di una piena autonomia strategica, e pur restando nella Nato forse riuscirebbe a contare qualcosa; i vassalli di Trump non sarebbero coinvolti e manterrebbero i vantaggi (e gli oneri) della protezione americana.

In secondo luogo, il mondo è definitivamente multipolare, e il sogno di rieditare i due blocchi (di qua le democrazie, di là le tirannidi) è impraticabile, oltre che falso nella rigidità delle sue premesse. Se gli occidentali vogliono evitarsi le vendette di al Qaeda e gli slanci dell’islamismo guerriero, per esempio, non possono non trovare intese con chi ha altrettante ragioni per temere e dispone di assets in Asia centrale, Cina e Russia in testa.

La collaborazione internazionale

ADN-ZB/Sturm/1.8.1975/Helsinki: Europäische Sicherheitskonferenz/Abschlußsitzung/Während der Abschlußsitzung der 3. Phase der Europäischen Sicherheitskonferenz am 1.8.1975 in der Finlandia-Halle in Helsinki unterzeichneten die Delegationsleiter der 35 an der Konferenz beteiligten Staaten das Hauptdokument der Konferenz. V.l.n.r.: Helmut Schmidt, Bundeskanzler der Bundesrepublik Deutschland, Erich Honecker, Erster Sekretär der Sozialistischen Einheitspartei Deutschlands, Gerald Ford Präsident der Vereinigten Staaten von Amerika, Bruno Kreisky, Bundeskanzler der Republik Österreich.

I cambiamenti climatici, le pandemie mondiali, tutto questo richiede forme di collaborazione internazionale. Invece di una rivisitazione di Yalta sarebbe assai più saggio ripartire da Helsinki, ovvero tentare di risolvere i dilemmi che gli accordi del 1975 lasciarono insoluti e dotare il mondo multipolare di regole e limiti, se non proprio di una elementare legalità internazionale.

Si tratterebbe di stabilire come debbano interagire i tre principi intorno ai quali ruotava il decalogo di Helsinki: inviolabilità delle frontiere (capitolo III), rispetto dei diritti umani (capitolo VII), autodeterminazione dei popoli (capitolo VIII).

La crisi ucraina e le altre crisi che sobbollono a ridosso dei confini della Ue mettono in contraddizione quei tre principi fondamentali. Occorrerebbe una Helsinki2. Oppure, chissà, un Roma1, Mario Draghi certamente avrebbe il prestigio e gli affidavit per misurarsi nell’impresa (gli manca solo un paese serio alle spalle, ma si può ovviare).

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