Il ventitreesimo summit Cina-Unione europea che ieri si è svolto in videoconferenza tra Pechino e Bruxelles è arrivato a quasi due anni di distanza dal precedente (giugno 2020) a causa dei contrasti e delle incomprensioni che hanno reso sempre più complicato il dialogo tra i due blocchi.

All’incontro la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio, Charles Michel, l’alto rappresentante della politica estera e di sicurezza, Josep Borrell, da un lato e, dall’altro, il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang si sono presentati con due agende contrapposte.

In due ore di colloqui i vertici dell’Ue hanno provato soprattutto a essere rassicurati da Pechino che non aiuterà Mosca a eludere le sanzioni internazionali, né, tantomeno, fornirà sostegno militare all’aggressione lanciata da Putin all’Ucraina. Xi e Li invece si sono presentati come i leader del principale partner commerciale comunitario (col quale l’Ue nel 2021 ha intrattenuto il 16% dei sui scambi globali, per 696 miliardi di euro), perorando la necessità di una cooperazione più stretta in un mondo più instabile, grazie alla quale arginare le spinte protezionistiche e alla divisione del mondo in blocchi.

«L’Ue si aspetta che la Cina si prenda le sue responsabilità come membro del Consiglio di sicurezza dell’Onu ed eserciti la sua influenza sulla Russia - ha dichiarato von der Leyen -. L’equidistanza non basta, abbiamo chiesto un impegno attivo della Cina per raggiungere la pace in Ucraina».

Stando a quanto riferiscono i media cinesi, la leadership di Pechino non ha apprezzato particolarmente queste pressioni. Li Keqiang ha risposto che la Cina lavorerà alla pace in Ucraina «a modo suo», di concerto con la comunità internazionale. La Cina si è posta alla guida di quei 35 paesi che si sono astenuti dalla condanna dell’Assemblea generale delle Nazioni unite all’aggressione russa all’Ucraina, e continua a respingere le sanzioni come “illegali” e pericolose per l’economia globale.

Orfani di Angela Merkel

D’altro canto Pechino teme che l’Ue e gli Stati Uniti (complessivamente un quarto del suo commercio estero) finiscano per metterla sul banco degli imputati per le azioni della Russia, con la quale la Cina intrattiene il 2,4 per cento di suoi scambi. Per questo Xi ieri ha invitato i leader europei «a formarsi una propria percezione della Cina, adottare una politica indipendente nei confronti della Cina e lavorare per la crescita continua e sostenuta delle relazioni tra Cina e Unione europea».

Ma la leadership di Pechino, orfana di Angela Merkel - per 16 anni l’alfiere del dialogo sino-europeo -, non ha fatto nemmeno in tempo ad annusare la “autonomia strategica” immaginata da Emmanuel Macron, e si è ritrovata a fare i conti con un’Unione che serra i ranghi con gli Stati uniti per fronteggiare l’invasione russa dell’Ucraina.

Per provare a limitare i danni, negli ultimi giorni da Pechino è partito un pressing diplomatico su Volkswagen, Daimler e altre compagnie tedesche (tra le principali beneficiarie di un commercio bilaterale che l’anno scorso per l’Ue si è tradotto in un deficit mostre di 249 miliardi di dollari) affinché intensifichino la lobbying per la cooperazione sino-europea.

Tuttavia è anche a causa di suddetti squilibri e della competizione delle compagnie cinesi, che la politica dell’Ue si è fatta sempre meno conciliante nei confronti della Cina.

Prima, nel 2019, la Commissione ha bollato la Cina come “rivale sistemico” (una definizione che, da allora, Pechino continua a chiedere di depennare), poi sono arrivate le sanzioni per la repressione dei musulmani del Xinjiang e del movimento di Hong Kong (che hanno colpito anche un membro dell’Ufficio politico del Partito comunista), il congelamento dell’agognato e a lungo negoziato Comprehensive agreement on investment (Cai) e, dulcis in fundo, lo scontro con la Lituania per le aperture diplomatiche di Vilnius a Taipei. E ora Pechino rischia di finire sul banco degli imputati per la guerra del quasi-alleato Putin.

Al centro del dibattito diplomatico e dei policymaker, l’apparentemente ambigua posizione di Pechino sull’Ucraina è stata spiegata in questi giorni da Lee Hsien Loong, che negli Stati uniti ha incontrato, tra gli altri, il presidente Joe Biden e la vice presidente Kamala Harris. Il premier di Singapore è tra i massimi conoscitori della politica cinese e svolge il ruolo, non ufficiale, di consigliere degli Usa su quanto accade a Pechino.

L’Asia al centro

Secondo Lee, il rifiuto di Xi e compagni di prendere le distanze da Putin non avrà ripercussioni negative su Cina che guarda sempre di più all’Asia. «Tutti i paesi della regione hanno a cuore la sovranità e i principi della Carta delle Nazioni unite, ma allo stesso tempo vogliono i loro legami con la Cina e alcuni di loro hanno legami significativi con la Russia», ha sostenuto il premier della città-stato. Lee ha inoltre espresso chiaramente il suo scetticismo riguardo a una possibile mediazione cinese: «Non penso che si offriranno volontari per questo compito e non penso che il problema principale sia la mancanza di un mediatore».

Il successore del padre della patria Lee Kwan Yew ha anche indicato agli amici statunitensi la politica da seguire per evitare che Taiwan diventi l’Ucraina del Pacifico, con conseguenze potenzialmente apocalittiche per il pianeta: preservare lo status quo, evitando di assecondare pericolose fughe in avanti dei taiwanesi verso l’indipendenza. Qualsiasi cambiamento per Taiwan, secondo Lee, «non deve aver luogo forzatamente o non-pacificamente. È molto difficile da gestire, perché non è solo una questione economica e strategica, ma ha anche a che fare con la politica e i sentimenti della popolazione».

Secondo Lee il conflitto in Ucraina avrà ripercussioni negative sulle relazioni Cina-Stati uniti e, di conseguenza, sul resto del mondo. In Giappone e in Corea del sud si discute sempre più seriamente di dotarsi dell’atomica? «Il pensiero ormai è piantato e non andrà via, perché l’implicazione dall’Ucraina è che la deterrenza nucleare è qualcosa che può essere molto prezioso».

La crisi ha anche sottolineato l’importanza di avere nell’area Asia-Pacifico istituzioni che aiutino a evitare conflitti. Per il premier di Singapore queste istituzioni dovranno favorire un cambiamento difficile : «Come accogliere una Cina che diventerà più sviluppata, più grande… ma che non si imponga sul resto del mondo e che sia accettabile per gli Stati uniti, che restano la potenza militare dominante».

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