Nell’anniversario di una guerra che ha dominato l’informazione, è interessante capire come il giornalismo italiano abbia affrontato un evento tanto sconvolgente. Del febbraio dello scorso anno ricorderemo le previsioni errate su una guerra considerata impossibile e, appena scoppiata, già vinta dalla Russia. 

In qualche giorno le prime pagine passarono dal raccontare Sanremo e l’assalto al Quirinale di Silvio Berlusconi agli assalti dell’esercito russo, considerato tra i più potenti al mondo, all’Ucraina, con personaggi ormai onnipresenti, primo fra tutti Volodymyr Zelensky, che cominciavano a dominare i media del nostro paese.

La prima settimana

Nelle redazioni dei giornali italiani non mancavano dilemmi, il 24 febbraio 2022, su come raccontare un fatto, l’invasione, non di certo ordinario che impone registri inconsueti, in cui fare della “fredda” cronaca sembra equivalere a schierarsi con l’invasore, come se i fatti non fossero già abbastanza per capire “da che parte stare”. 

Le prime pagine della prima settimana di guerra aiutano a comprendere il fenomeno giornalistico, non parallelo ma parte integrante della dimensione globale del conflitto.

Ricorre, nella prima settimana di guerra, il nome di un uomo, Vladimir Putin: «Putin scatena la guerra» ci dice il Corriere il 25 febbraio e Repubblica titola «La guerra di Putin». Sulla stessa linea il Giornale, «Putin kamikaze», e il Fatto, «Putin marcia su Kiev».

Insomma, tutti concordi nell’evidenziare la dimensione personalistica dell’invasione, la centralità della decisione del singolo leader, un piano di analisi valido ed emozionalmente efficace, ma forse, a lungo andare, insufficiente. Condivisa anche l’opinione sull’inefficacia, evidente, delle sanzioni occidentali, incapaci di prevenire l’invasione del 24, un tema su cui, già pochi giorni dopo, la stampa italiana si biforcherà.

Lo stesso si verifica in merito all’invio di armi a Kiev. «Entriamo in guerra ma non si deve dire» è il provocatorio titolo del Fatto, mentre, per esempio, la Stampa già il 25 riprende le parole di Biden, «sanzioni devastanti contro Putin», per poi dare corpo all’orrore del conflitto evidenziandone l’impatto sugli innocenti.

I temi 

Già nella prima settimana, titoli, foto e testi delineano i temi che diverranno poi ricorrenti nei dodici lunghi mesi successivi. 

Oltre alle accuse a Putin, sempre più spesso chiamato lo «zar», comincia ad affiancarsi il tema umanitario, sostanziato dal volto ferito e bendato di una donna di Kharkiv, Olena Kurylo, che diventerà l’icona degli effetti della brutalità russa, ripresa da diverse prime pagine. 

Non meno presente la preoccupazione per l’uso del nucleare. Nessuno escludeva la «minaccia atomica», foraggiata dalle prime dichiarazioni in merito dei vertici del Cremlino: «Follia nucleare» scrive il Giornale, «Putin assediante assediato minaccia l’Armageddon» il Fatto, «Putin sfodera l’atomica» la Repubblica.

Le sanzioni, poi, diventano una componente del più ampio tema chiave del supporto europeo. Quanto stiamo aiutando Volodymyr Zelensky a contenere l’invasore? Quanto oltre dovremmo spingerci nel sostenere Kiev nonostante le minacce russe? E quanto indipendente sarà l’Europa dal “pugno duro” di Joe Biden? 

La discriminante in merito diventa l’energia, con l’Europa che si scopre dipendente dal gas di Putin che «fa esplodere le bollette» per il Tempo e, per Domani, ci fa dire «addio» alla transizione ecologica, imponendo una riflessione sul ruolo dell’Europa («L’aggressione russa deve cambiare la politica di vicinato di Bruxelles» su Domani il 1 marzo).

Comincia così a insinuarsi il dubbio sul “nostro” interesse. Si apre il dibattito: aiutare il “martire” o scendere a compromessi con il “criminale”? 

Tutti temi che, condensati nei concitati giorni della prima settimana di guerra, ritornano quotidianamente, sì irrisolti e rimaneggiati ma segno di uno sconcerto di fronte alla «guerra in Europa» che ancora non ci abbandona. 

I limiti 

Premettendo la difficoltà per gli osservatori di interfacciarsi con uno scenario tanto fumoso e complesso, l’informazione italiana e non solo ha mostrato dei limiti evidenti in quella prima settimana e nell’anno successivo, figli di polarizzazioni quasi inevitabili e preconcetti di lungo corso. 

Al netto delle forse avventate analisi politico-militari sulla guerra su cui è facile discettare a posteriori, colpisce il modo in cui i concetti di pace, dialogo e negoziazioni vengono presentati, non coniugabili con l’aiuto alla resistenza, inaugurando la divisione, identificata da Ivan Kratsev, tra fronte della “pace” e fronte della “giustizia”. 

Una visione binaria che, sui giornali italiani, prende i contorni delineati, per esempio, dall’Avvenire con un pezzo del 1 marzo intitolato «”Caschi blu in Ucraina, non armi”. Il popolo della pace chiede la svolta» e dall’intervista del Fatto ad Antonio d’Andrea del 28 febbraio, da un lato, e, dall’altro, dal Foglio del 4 marzo con «Le bombe su Kiev e il senso di una resistenza». 

Anche dai quotidiani emerge l’incertezza sulla geografia del conflitto: l’Ucraina è Europa? Affermativo, risponde il Messaggero il 25 febbraio con l’apertura «La guerra nel cuore dell’Europa»; più sfumata la posizione del 27 febbraio della Repubblica con «L’Europa arma l’Ucraina». 

La geografia diventa così geopolitica: la caratterizzazione politica dello spazio, spesso inconsapevole, comincia a disegnare le frontiere del continente scosso dalla guerra, interrogandosi fin troppo poco su cosa implica la scelta di termini come «cuore» e «frontiera» e la soggettività passiva o attiva attribuita a Kiev. 

Intrecciata con la geografia, la storia diventa arma di guerra. Per primo è Putin a definire l’Ucraina come un errore storico dell’era post-sovietica. A questa definizione dell’Ucraina come paese senza storia la stampa italiana fatica, in linea generale, a opporre una narrazione profonda. 

I limiti sono due: da un lato, la paura, comprensibile, di collusione col nazionalismo ucraino e, dall’altro, la necessità di raccontare un oggi tempestoso che oscura un passato difficile da mettere, giorno dopo giorno, su carta.

E oggi? 

La guerra purtroppo continua e la carta stampata prosegue nel ruo racconto della triste realtà del conflitto. Con l’approssimarsi dell’anniversario, l’attenzione sulla guerra ritorna a livelli paragonabili a quelli dei primi giorni, dopo una forse naturale fatica nel trattare costantemente un processo tanto lungo e articolato nonostante la sua evidente centralità. 

Basta guardare in casa propria. Su Domani del 23 febbraio 4 pagine su 16 sono dedicate alla guerra, inclusa prima pagina di bilancio sulla situazione globale a un anno dall’invasione, mentre sull’edizione del 21 dicembre, accuratamente selezionata con l’ausilio del caso, ci siamo limitati a una breve sul tema e a un’intervista a Bulent Kenes a sfondo turco che, inevitabilmente, apre anche ai flirt tra Erdogan e Putin. Sono i limiti spazio-temporali della stampa. 

Oggi i temi rimangono quelli della prima settimana, segno non di un conflitto monotono e di facile lettura, ma di ciò che più ci interessa e ci preoccupa, di una scala delle priorità che rimane immutata in un anno di guerra e relega alcuni aspetti a una trattazione discontinua. 

Tocca anche chiedersi che fine faranno voci come quella di Alessandro Orsini, per alcuni allarmista filoputiniano della prima ora, per altri visionario, per tutti un “esperto” di politica internazionale fin troppo attaccato alla versione più intransigente di temi e categorie della scuola realista delle Relazioni internazionali. 

Continuano le interviste ai generali, su tutti Marco Bertolini per il Fatto, che ondeggiano tra i temi della tattica e quelli della strategia. Voci diverse che si interrogano soprattutto sull’invio di armi all’Ucraina con le testate che forse eccedono nel trovare conferma tecnica alle proprie visioni politiche. 

Guardarsi indietro aiuta a migliorarsi. Bisogna interrogarsi su errori e limiti, su scelte obbligate e narrazioni orientate, sui fattori esterni e interni che le hanno influenzate. Il linguaggio costruisce la realtà esattamente come le bombe e tocca alla stampa l’ingrato compito di far sì che i limiti strutturali dell’informazione non ne pregiudichino il ruolo di pilastro di una democrazia che deve andare oltre le sole urne. 

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