Ragionare sul piano Mattei significa comprendere in profondità le esigenze africane attuali. Uno dei temi più scottanti che interessano molti tati subsahariani è la questione del debito, sulla quale l’Italia potrebbe farsi “madrina” di molti paesi del continente, accompagnandoli nel lungo negoziato del formato G20 (meccanismo di quadro comune).

Dopo quella degli anni Ottanta e Novanta, i vari piani del fondo monetario internazionale (Fmi) e l’iniziativa per i paesi poveri più indebitati (Heavily Indebted Poor Countries Hipc), fino alla cancellazione di gran parte del debito residuo con il Giubileo del 2000, la crisi del debito sembra voler rinascere dalle sue ceneri, anche se in maniera molto diversa dal passato e meno virulenta di come alcuni avevano temuto durante i lunghi mesi della pandemia.

Il caso zambiano

Hakainde Hichilema, presidente dello Zambia, è il primo leader africano a parlarne apertamente dopo aver utilizzato positivamente lo schema finanziario messo a punto dal G20 proprio per evitare i disastri dovuti all’insolvenza.

«Il debito è come un pitone che ti strangola al collo», ha dichiarato illustrando il percorso del negoziato sulla ristrutturazione, andato a buon fine malgrado lunghi mesi di trattativa che sembrava non dover terminare mai. Cina e creditori occidentali forniranno a Lusaka un fondamentale sollievo per gli oltre sei miliardi di dollari del debito pubblico del paese. L’accordo zambiano è diventato un modello (qualcuno dice la cavia) che mette alla prova l’adeguatezza del sistema finanziario internazionale a gestire tali crisi.

Dopo lo Zambia, a fare la fila per la ristrutturazione ci sono Sri Lanka (che aveva già fatto default), Ciad, Etiopia e Ghana. Tutti costoro chiedono di compiere lo stesso percorso dello Zambia. In alcuni casi (ad esempio Addis Abeba e Accra) l’Italia potrebbe proporsi come facilitatore all’interno del comitato dei creditori, sostenendo una soluzione più rapida.

Una crisi differente

La crisi attuale del debito è molto diversa da quella precedente di oltre vent’ anni fa, non fosse altro per l’alto tasso di diversificazione dei detentori del debito stesso.

L’ultima volta i protagonisti erano le istituzioni finanziarie internazionali (Fmi e Banca Mondiale) oltre al Club di Parigi (i paesi occidentali); oggi c’è anche la Cina e soprattutto il mercato, incluse le banche (private e internazionali) e i fondi. Il mix eterogeno dei creditori crea forti competizioni interne tra questi ultimi, difficili da gestire: le regole economiche si mescolano alla politica e ognuno persegue i propri interessi. La concorrenza tra creditori rallenta le trattative e rende necessario un sostegno appropriato per i paesi indebitati nel quadro del negoziato.

Per il momento la crisi debitoria africana non allarma il sistema globale: né Usa né Cina percepiscono le insolvenze come una minaccia sistemica. Pechino è consapevole che dovrà rimetterci molti denari perché ha prestato con troppa facilità, ma nulla di più.

Rispetto al mercato finanziario le cifre sono risibili: il pagamento del servizio del debito (cioè degli interessi) dei soli paesi africani è di 21,4 miliardi nel 2022 (secondo Fitch), il che corrisponde a ciò che gli Usa hanno messo sul tavolo solo per salvare la Silicon Valley Bank. In tutto si tratterebbe di 326 miliardi di dollari per i 70 paesi a basso reddito indebitati, mentre lo stock complessivo del debito africano sarebbe di 1140 miliardi di dollari nel 2022 (a titolo di paragone solo l’Italia ha un debito pubblico di 2812 miliardi di euro ad aprile 2023).

Tuttavia queste cifre bastano per mettere in crisi interi paesi e provocare instabilità e crisi politiche. In passato era il Fmi a svolgere la parte del “cattivo” che dettava le regole: oggi invece il Fondo è uno dei sostenitori più attivi dei paesi indebitati, un vero e proprio avvocato.

La situazione

Nel caso dello Zambia l’alto livello del debito contratto con la Cina è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso ma il negoziato ha favorito un riequilibrio senza isolare Pechino. Ciò a cui ora punta Lusaka è transitare verso un’economia di trasformazione e l’espansione del commercio regionale. Ora tocca al Ghana: il Fondo ha deliberato a maggio un prestito di 2,8 miliardi di euro e i creditori si sono impegnati ad iniziare una trattiva che si prevede lunga e complessa. Accra ha utilizzato numerose volte il ricorso al mercato finanziario in questi dieci anni, emettendo buoni del tesoro che sono andati in mani diverse a tassi che ora sono schizzati verso l’alto.

In Africa si calcola che il debito raggiunga il 57 per cento del PIil subsahariano: come si vede ben al di sotto dello stesso 60 per cento delle regole Ue. Ma ciò che mette paura non è tanto il volume assoluto né quello del suo valore relativo, ma la capacità di rimborsarlo da parte dei paesi indebitati. Quando si parla di debito tutto gira sempre attorno a questo: la credibilità del paese ad essere solvente. Per questo paesi ricchi molto più indebitati sono meno osservati. Resta il fatto che l’Africa, come ha scritto il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres sulle pagine di Le Monde, «dal 2020 spende più per il servizio del debito che per la salute».

Solo in Nigeria il rimborso del debito assorbe circa il 90 per cento delle entrate dello stato federale. La tortuosità e conflittualità dello scenario dei creditori rappresenta oggi il maggior problema, assieme alla guerra e alle conseguenze della pandemia. Oltre alla Cina che ha prestato molto (non ci sono cifre certe ma si parla di oltre 200 miliardi di dollari), gli Stati africani hanno rastrellato sul mercato finanziario emettendo titoli nazionali in moneta straniera (per lo più euro o dollari). In cambio c’è stato un boom dei Pil nazionali, con crescita delle infrastrutture che ha favorito il mercato interno e il business privato. Ora però i nodi vengono al pettine anche a causa dell’innalzamento globale dei tassi di interesse provocati dalla guerra.

Il trend era già negativo a causa della crisi dei subprime del 2008: tra il 2010 e il 2020 il volume del debito di alcuni paesi africani era già aumentato del 200 per cento. Il conflitto ha dato ora il colpo di grazia. Anche se i creditori pubblici litigano tra loro (Fmi, Usa e Cina), in realtà oltre la metà del debito è detenuta da privati, dalle banche commerciali e dagli hedge funds. Questa è la ragione per cui al G20 l’idea di cancellare il servizio del debito non è passata, né quella di congelarlo o sospenderla sine die.

Un approccio che funzioni

Oggi i paesi più a rischio in Africa sono oltre il Ghana, Gibuti, Eritrea, Sudan e Sud Sudan, Etiopia, Ciad, Repubblica Centrafricana, Malawi, Mozambico, Zimbabwe, Somalia, Sierra Leone, Kenya Burundi e Guinea Bissau. In tale complesso panorama subsahariano è necessario muoversi con intelligenza: annullare precipitosamente debiti commerciali farebbe schizzare in alto i tassi di interesse, impedendo del tutto ai paesi africani l’accesso futuro al mercato finanziario globale (senza contare i fallimenti che provocherebbe).

D’altro canto lasciare che il servizio del debito schiacci ogni politica pubblica condurrebbe a crisi politiche pericolose. Il negoziato si dipana dunque tra creditori pubblici (divisi a loro volta tra occidente e Cina) e creditori privati (di genere vario). A mediare il Fondo e la Banca Mondiale. Si tratta di uno scenario del tutto imprevisto che richiede creatività politica e finanziaria. Esperta di gestione del debito, l’Italia può sintonizzarsi con tale novità, offrendo ai paesi africani più vicini, la propria expertise e il suo partenariato durante i lunghi negoziati che li attendono. Abbiamo già avuto un assaggio di tale politica nel caso della Tunisia: si tratta di escogitare un approccio che funzioni anche nella parte subsahariano del continente. 

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