«Degli stati emersi dalle tre grandi rivoluzioni del XX secolo, in Russia nel 1917, in Cina nel 1949 e in Iran nel 1979, la repubblica islamica d’Iran – scriveva Michael Mandelbaum, della John Hopkins University – da sola persevera in qualcosa che somiglia alla sua forma originaria. L’Iran moderno è un relitto storico e il suo regime rivoluzionario è sempre più sclerotico e assediato ma allo stesso tempo negli ultimi anni è riuscito a esercitare sempre più potere e influenza oltre i propri confini».  

Gli artefici della rivoluzione iraniana avevano due obiettivi: rifare la società e stabilire l’egemonia del paese all’estero. Oggi i leader iraniani, di fronte all’ennesima rivolta interna, appaiono ben lungi dall’aver conseguito il primo obiettivo mentre sono vicini al secondo, se è vero come ha scritto Karim Sadjadpour sul Washington Post che “«Teheran ha un’enorme influenza in quattro capitali arabe – Damasco, Beirut, Baghdad e Sanaa – e ha fornito aiuti finanziari e militari alle dittature anti americane a Caracas e Pyongyang. Il governo russo ha iniziato a utilizzare droni kamikaze iraniani contro l’Ucraina. Le armi iraniane stanno alimentando le guerre in Africa. In ogni guerra fredda o calda nel mondo di oggi, Teheran si schiera contro gli Stati Uniti». Paradossalmente più il regime è fragile all’interno e più è forte all’esterno.

Come evolverà il regime?

La natura del regime iraniano e la sua possibile evoluzione verso una democrazia sarà raggiunta attraverso riforme graduali o con una rivoluzione radicale e violenta? Misagh Parsa del Dartmoutl College risponde a questa domanda nel suo libro “Democracy in Iran” sostanzialmente con la seconda opzione. Parsa ricorda come Khomeini sia giunto al potere nel 1979 promettendo al popolo la democrazia e la prosperità economica «ma ha attuato una dittatura spirituale basata su una particolare interpretazione dell’islam sciita». L’ultima parola su qualsiasi questione spetta alla guida suprema, il che vuol dire a Khomeini stesso fino alla sua morte nel 1989, e poi all’ayatollah Alì Khamenei.

Contro l’hijab

«Coloro che hanno presto parte alle rivolte devono essere affrontati con decisione, questa è la richiesta del popolo», ha detto il presidente iraniano Ebrahim Raisi, commentando le proteste, in corso da due settimane nel paese, per la morte della 22enne Mahsa Amini, che era stata arrestata dalla polizia morale perché indossava male il velo. «il nemico ha colpito l’unità nazionale», ha detto Raisi, con un implicito riferimento agli Stati Uniti, che hanno condannato il pugno duro contro le dimostrazioni in Iran. Ma perché tanta determinazione?

L’hijab obbligatorio è uno dei tre punti ideologici della teocrazia iraniana, insieme a “morte all’America” e “morte a Israele”. Il leader supremo, l’ayatollah Ali Khamenei, crede che compromettere i pilastri ideologici del regime, incluso l’hijab, non farà che accelerare il suo crollo. «Se vogliamo evitare che la nostra società precipiti nella corruzione e nei disordini», ha detto Khamenei, «dovremmo mantenere le donne in hijab».

Cosa devono fare l’America e l’Europa di fronte all’ennesima crisi del regime iraniano? Puntare su un rinnovato accordo sul nucleare? Ci sono altre strade. «Washington non riuscirà mai a trovare un accordo con Teheran. Invece di rispondere ai sintomi dell'ideologia iraniana, Washington – e l’occidente – devono concentrarsi sulla sua causa principale, il regime stesso. L’avvento di un governo iraniano rappresentativo che antepone gli interessi nazionali del paese alla sua ideologia rivoluzionaria potrebbe essere un punto di svolta geopolitico per gli Stati Uniti», suggerisce Karim Sadjadpour.

Favorire un regime change

Favorire l’avvento di un nuovo governo democratico è una ipotesi realistica? Forse sì perché questa volta in Iran la rivolta è diversa dalle precedenti e se l’esito dello scontro finale non è scontato, i cambiamenti sociali in corso sono profondi e duraturi.

Le rivolte del 2009 per i brogli elettorali a favore di Ahmadinejad e poi quelle per la siccità e poi per l’aumento dei prezzi della benzina, sono state tutte represse dai pasdaran, i guardiani della rivoluzione. Quando il riformatore moderato interno al regime Hossein Mousavi, si è schierato contro Ahmadinejad alle elezioni presidenziali del 2009, il risultato era aperto. Ma il governo ha dichiarato la vittoria di Ahmadinejad prima che fossero chiusi i seggi provocando una rivolta che è durata venti mesi e che alla fine ha visto la vittoria del regime con migliaia di manifestanti arrestati e, in alcuni casi, uccisi. 

Questa volta potrebbe essere diverso perché non c’è un movimento organizzato come l’“onda verde”. La rivolta di oggi è spontanea e il regime arresta vecchi leader dell’opposizione ormai superata. Siamo in presenza di una rivolta acefala, dal basso, senza leader e quindi più difficile da schiacciare. Una rivolta basata sui diritti personali più simile alle proteste generazionali del 1968 occidentale. Per questi motivi l’occidente e le forze progressiste devono aiutare le giovani donne iraniane. Perché questa volta è diverso.

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