Oggi Angela Merkel apre il Consiglio europeo informale, momento in cui si capirà se il veto imposto da Ungheria, Polonia, e ora anche Slovenia, sugli aiuti europei per la ripresa è un bluff, o se davvero l’intera Europa si fa tenere sotto ricatto e rischia il ritardo o lo stop all’erogazione dei fondi. La Germania ci mette la faccia: è la presidenza tedesca ad aver guidato i negoziati con l’Europarlamento, conclusi il 5 novembre con un accordo sulla necessità di vincolare i fondi Ue al rispetto dello stato di diritto. Proprio l’idea di condizionare i soldi ai principi democratici è indigeribile a Viktor Orbán, il più spregiudicato fra i tre paesi del veto. Ma l’Ungheria può fare a meno dei fondi? E Orbán tenere in scacco un continente? Come ha potuto riuscirci finora?

Le complicità sovraniste

Ieri Giorgia Meloni, presidente del partito dei conservatori europei, ha dato solidarietà a Orbán, con il quale ha stretto ancor di più i rapporti di recente. Il 4 febbraio c’era lei, e non Matteo Salvini, ad accoglierlo a Roma per una conferenza. E il fatto che il veto ungherese comprometta l’arrivo (o la puntualità) degli aiuti all’Italia non le ha fatto cambiare idea: dice che «l’eurosistema vuole costringere le nazioni a cedere sovranità». Forza Italia, e Silvio Berlusconi, è tra i membri del Partito popolare europeo a essersi battuti perché Fidesz non venisse espulso dalla famiglia (e infatti è solo sospeso). Gli appoggi interni alle destre non bastano però a spiegare perché Orbán può permettersi il suo bullismo diplomatico. Dopo tutto, i quattro grandi gruppi politici europei (socialisti, popolari, verdi e liberali) nell’Europarlamento hanno lottato compatti per l’accordo sullo stato di diritto. Il nodo, politico ma pure economico, è nei rapporti fra i governi, e con uno in particolare.  

Il legame con Berlino

Finora la Germania non ha mai voluto alienarsi l’Ungheria, sbocco fondamentale per le sue esportazioni. Qui «le grandi case automobilistiche come Audi, Mercedes e Bmw godono di sgravi fiscali e basso costo del lavoro. Prima del voto del 2018, un centinaio di imprenditori tedeschi, sul giornale economico Wirtschaftswoche, si dissero completamente soddisfatti con Orbán», dice Péter Techet, giornalista e storico ungherese che ora vive e fa ricerca in Germania. Si chiama “interdipendenza asimmetrica”: Berlino è il partner forte, ma di Budapest non farebbe a meno. «Orbán fa discorsi euroscettici ma nella sostanza coltiva rapporti stretti con la Germania», dice Csaba Lukács, direttore del settimanale ungherese Magyar Hang. «Per accontentare le aziende tedesche ha concesso una legge, la slave labour law, che consente agli imprenditori di abbattere le tutele su riposi e straordinari». L’Ungheria lusinga Berlino pure con ingenti acquisti militari; è diventata l’acquirente numero uno delle armi tedesche.

L’alleanza tacita in Europa

La Bmw ha installato un nuovo stabilimento a Debrecen. Le potenti connessioni economiche potrebbero essere utilizzate dalla cancelliera come leva per disinnescare il veto ungherese. Finora non è andata così. Merkel ha anzi sfruttato la complicità di Orbán in più occasioni. Una la ricorda il segretario dei Verdi ungheresi, Péter Ungar: «Quando Merkel ha sostenuto von der Leyen alla presidenza della Commissione, ha contato sul sostegno di Ungheria e Polonia». Ci sono altri tipi di sostegni meno noti; li ha portati a galla il giornalismo investigativo di Direkt36: quando nel 2015 lo scandalo Dieselgate travolge Volkswagen, il premier ungherese in sede di Consiglio europeo spalleggia gli interessi della Germania. Le connessioni strettissime tra Orbán e gli industriali tedeschi sono radicate sin dalla sua prima premiership nel 1998.

Disinnescare il veto

Il punto è che stavolta Merkel si è esposta per la rule of law accordandosi con l’Europarlamento. «È impraticabile ridiscutere l’accordo. Nessuna concessione all’Ungheria che non sia solo cosmetica verrebbe approvata dall’assemblea» dice Brando Benifei, capodelegazione Pd a Strasburgo. La Germania ha poco margine di manovra: l’assemblea non fa compromessi sulla democrazia. E l’Ungheria, bluffa o fa sul serio? «Orbán fa il suo solito chicken game: azzarda, si butta in autostrada contromano e vede chi sterza prima. Di solito gli va bene: sterzano prima gli altri, Germania compresa» dice Stefano Bottoni, autore di “Orbán. Un despota in Europa”. «Ma stavolta potrebbe arrendersi con un contentino: dopotutto, lui vuole i soldi europei».

I soldi in famiglia

A Orbán i fondi servono eccome: li usa per foraggiare il suo sistema di potere. La condizionalità sulla rule of law è temuta proprio perché può disinnescare l’uso clientelare che ne fa. Nel 2015 ha ceduto a prezzi irrisori terreni pubblici alla cerchia di Fidesz. Gli oligarchi sono diventati i “feudatari” d’Ungheria; a foraggiarli, i soldi europei. Il New York Times ha denunciato il modo in cui i sussidi Ue nutrono il sistema, ma l’Europa chiude gli occhi. «Quando l’Ue si è dotata di un procuratore europeo contro corruzione e frode sul bilancio Ue, i governi hanno permesso che l’Ungheria non aderisse» dice l’europarlamentare liberale Katalin Cseh, del partito di opposizione ungherese Momentum.

Budapest sarebbe la prima beneficiaria pro-capite del fondo di ristoro, ma accettare la condizionalità - che implica lotta alla corruzione e indipendenza della magistratura - significa mettere a rischio un certo uso dei soldi. Blanka Zodi e Andras Petho, giornalisti investigativi ungheresi, hanno svelato che i fondi Ue, oltre a finire nelle tasche della famiglia allargata (la clientela) di Orbán, hanno arricchito pure la famiglia in senso stretto: padre, fratello e nipote. La polizia ha rinunciato a indagare. In un sistema congegnato ad hoc dal governo perché le indagini scomode non procedano, «Péter Polt, il procuratore capo ungherese, fa cadere le indagini», dice Cseh. Se la condizionalità sullo stato di diritto entrasse a regime, i nuovi vincoli minaccerebbero questo sistema-Orbán.

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