Nella campagna elettorale di Fratelli d’Italia, la strategia è quella di non sovrapporre altre voci a quella di Giorgia Meloni, unica mattatrice in campo. Con tre eccezioni di peso, non a caso esterne all’ortodossia del partito: l’ex magistrato Carlo Nordio, il filosofo Macello Pera e l’economista Giulio Tremonti.

Nordio, Pera e Tremonti, candidati blindatissimi e corteggiati da Meloni già a partire dalla convention programmatica di Milano, sono gli unici a intervenire sui temi e addirittura a ridimensionare le posizioni della leader.

È successo con Nordio, che ha proposto il ritorno all’immunità parlamentare e ha detto candidamente che «il blocco navale non si può fare», spiegandone le ragioni tecniche e analizzando la questione migratoria. Lo stesso con Pera, che in un’intervista alla Stampa ha parlato del presidenzialismo e dato ragione al presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, smorzando la spinta verso una riforma costituzionale a colpi di maggioranza e rilanciando l’idea di una «costituente eletta con sistema proporzionale» che «ridisegni l’ingranaggio e non cambi solo una rotella».

Tremonti, invece, ha tenuto fermo il no allo scostamento di bilancio, chiedendo al governo Draghi di «agire subito» chiedendo un intervento europeo perchè i paesi taglino le imposte sull’energia e diluendo la flat tax con l’ipotesi di una «tassa incrementale sull’aumento dei redditi».

Battitori liberi

Solo a queste tre figure nobili è permesso di spaziare rispetto alla linea ufficiale della campagna elettorale, in linea con quello che è stato il ruolo loro assegnato nel corso della conferenza programmatica: da una parte problematizzare e concretizzare il progetto politico di Meloni, rassicurando sulla sua solidità; dall’altra mostrare agli osservatori esterni che c’è un investimento su Fratelli d’Italia da parte dell’establishment di centrodestra che è stato determinante nel corso della Seconda repubblica.

Non a caso, è stata Fratelli d’Italia a cercare loro e non viceversa: il partito aveva posti sicuri da offrire in lista senza dover sacrificare nessuno degli uscenti e il loro contributo è quello di costruzione di una immagine complessiva.

A loro è stata lasciata libertà di intervento sui temi per i quali sono stati chiamati: Tremonti sul piano dell’economia, portando la sua visione anti-globalizzazione; Nordio come alfiere del garantismo e Pera come teorico delle istituzioni.

Con un elemento determinante, però: nessuno dei tre può porsi come garante che le loro parole ricadano poi in precise iniziative politiche nei primi cento giorni dell’ipotetico governo di Meloni. Il programma depositato, infatti, è quello a maglie larghe approvato sul tavolo della coalizione di centrodestra e FdI si è guardata bene dal mettere per iscritto cosa intende concretamente con i lanci programmatici di campagna elettorale. Quello verrà in una seconda fase, quando la lotta interna al centrodestra sarà finita e la gerarchia delle forze politiche ristabilita con FdI al vertice.

L’obiettivo della loro candidatura, dunque, non è allargare all’elettorato centrista, provando a sottrarre qualche voto a Forza Italia. Nei sondaggi, Meloni è agevolmente tra il 20 e il 25 per cento e FdI è data dai pronostici come primo partito in parlamento.

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I voti ci sono, ma a mancare a FdI è una classe politica che abbia interlocutori nell’establishment e che lì risulti credibile e legittimata. In altre parole, è uno scambio alla pari: FdI offre spazio politico e autonomia nei propri settori di riferimento, pur nel campo comune prefissato; i padri nobili mettono in campo la loro credibilità verso l’alto, nei confronti dei corpi intermedi e degli osservatori di riferimento che potrebbero mettere ostacoli sulla strada di Meloni.

Se l’operazione è frutto di un calcolo strategico sensato nel breve periodo, soprattutto visto che le elezioni anticipate che hanno ridotto drasticamente il tempo di costruzione di una dirigenza di partito dimensionata al repentino aumento del consenso elettorale attribuito dai sondaggi. Nel lungo periodo, invece, potrebbe rivelarsi una soluzione perdente.

Lo sguardo, infatti, è inequivocabilmente rivolto al passato. Tremonti è stato tre volte ministro dell’Economia dei governi Berlusconi tra il 2001 e il 2011, in quegli stessi anni Pera è stato presidente del Senato in quota Forza Italia e poi senatore. Lo stesso Nordio, che pure non ha mai fatto politica negli anni in cui ha indossato la toga di procuratore aggiunto a Venezia, nel 2004 e per gli anni successivi ha presieduto la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale istituita dal ministro della Giustizia, Roberto Castelli.

La scelta di andare a ripescare nell’album dei ricordi del governo più longevo della storia della Repubblica, il Berlusconi II del 2001, mostra però un limite di lungo periodo. Investire su figure del passato, a cui l’età ha dato anche la libertà di sentirsi indipendenti, significa mettere un tappo alla formazione di una nuova dirigenza, certificandone l’assenza e rinunciando a crearla.

Proprio questa scelta fotografa lo stato del partito di Meloni, che per riempire i tanti posti ha preferito l’usato sicuro del passato e non ha investito nuove figure, volendo ridurre al minimo il rischio di inciampi nella ripulitura dell’immagine del nuovo partito aspirante alla maggioranza relativa.

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