Scalpitanti e imbizzarriti, i cavalli della carovana populista fiutano il cambiamento nell’aria e si rimettono a correre. Ma non è affatto chiaro dove si diriga questa carovana. E se le si prospetti un traguardo glorioso oppure invece si stia affacciando su un dirupo. O almeno verso un ripiegamento.

Le profezie sulla prossima destinazione del populismo, di questi tempi, sono le più varie. C’è chi scommette sul fatto che le difficoltà economiche, la penuria di energia, la ripresa dell’inflazione, in una parola le conseguenze della guerra apriranno altre praterie, dopo quelle conquistate nelle ultime stagioni.

E chi invece, all’opposto, ritiene che proprio i morsi della crisi indurranno un popolo a cui non fa difetto il buonsenso a evitare di avventurarsi più oltre, mettendo a rischio quel poco di riparo istituzionale che in altri tempi la nostra saggezza collettiva aveva saputo edificare.

Il populismo italiano

Si vedrà. Ma nel frattempo occorrerebbe forse anche cercare di capire di che pasta sia fatto il populismo nostrano. Che, certo, ha affinità con quello che ha preso il largo nel resto del mondo occidentale. Ma vi ha aggiunto di suo qualche differenza che forse non sempre è stata tenuta nel dovuto conto.

Personalmente credo che in Italia il populismo sia stato soprattutto il velenoso distillato prodotto da una classe dirigente in difficoltà, circostanza che ne spiega al tempo stesso i limiti e la forza. Torniamo indietro, e cerchiamo di andare alle radici del populismo; o almeno di quello che ne abbiamo conosciuto nel periodo repubblicano.

Proviamo a riassumere, facendolo un po’ a spanne, come pure non si dovrebbe. Dunque, siamo negli anni Settanta, è finito il boom economico, i grandi squilibri del dopoguerra hanno generato conflitti inediti e nel frattempo i partiti non sembrano riuscire a costruire quella che all’epoca si chiamava la democrazia compiuta.

C’è una crisi di sistema, che il sistema non si sente capace di risolvere. E così – lo dico tagliando impietosamente le cose con l’accetta – comincia la grande fuga in avanti di quegli anni, e di quelli successivi.

Palazzo vs piazza

La dicotomia tra il palazzo e la piazza ci annuncia tensioni che l’intelligenza politica del momento non appare più in grado di amministrare. Dunque, conviene forse che il palazzo si faccia a sua volta un po’ piazza, e da lì amministri sé stesso camuffandosi e defilandosi quel tanto da sfuggire al suo destino.

Il ricorso a modiche quantità di populismo sembra appunto poter riempire quel vuoto, e lenire la crescente difficoltà dei partiti a guidare il loro elettorato verso gli esiti che erano stati promessi.

Comincia di lì in avanti, per gradi, un racconto politico che non sembra più avere l’ambizione di padroneggiare la difficoltà, ma semmai quella più modesta di mettersene al riparo concedendo al malumore una discreta quantità di sdegno verso l’avversario e di compiacenza verso il pregiudizio.

Finisce la pedagogia che aveva caratterizzato i primi anni del dopoguerra e comincia a insinuarsi nei racconti politici del tempo una ricerca di scorciatoie lungo le quali ci si prodiga a inseguire il paese nei suoi sospetti, nelle sue diffidenze, nella sua crisi di fiducia.

Il rifugio dell’élite

È un fenomeno che scende dall’alto, più che salire dal basso. È il rifugio in cui si nasconde un’élite che ha perso il bandolo della sua matassa; l’estrema furbizia di un ceto politico che si sente in difficoltà, non sa bene come venirne a capo e decide che dare un po’ di fiato alle trombe della demagogia sia il modo più facile, meno costoso, di risalire nella considerazione dei propri elettori.

In altre parole è l’inizio di un gioco di prestigio che a poco a poco avrebbe prodotto conseguenze che solo oggi ci appaiono chiare. Prende corpo così la stagione che culminerà nell’illusionismo, inseguendo vie di fuga che porteranno sempre più lontano. Anche da sé stessi, viene da dire.

A voler essere severi (forse anche troppo) se ne possono cogliere le avvisaglie già nella seconda metà della Prima repubblica. C’è come un annuncio della stagione che verrà nel Pertini che dalla sommità del Quirinale si scaglia contro i ritardi della classe politica in occasione del terremoto dell’Irpinia.

O nel Berlinguer che decreta il primato della questione morale e colloca il suo partito dalla parte degli onesti facendo scivolare tutti gli altri dalla parte opposta. O nel Cossiga che si fa picconatore e dall’alto del Colle, anche lui, predica la fine di un sistema politico di cui fin lì era stato l’espressione più compìta e diligente.

Ovviamente nessuno di loro era “populista” in senso stretto, ci mancherebbe. Ma tutti loro, e molti altri ancora, cominciavano a dar voce ad argomenti, stati d’animo, posture, allusioni che a poco a poco avrebbero aperto le porte a un corale sentimento di inquietudine verso il valore stesso della politica e del suo primato.

La buona “ggente”

Così, se perfino le più blasonate (e solide, almeno allora) culture hanno cominciato a fare eco alla pancia del paese, una volta che quei partiti hanno poi ammainato le loro bandiere diventava ovvio che quella pancia si sarebbe gonfiata ancora di più.

E infatti, tra tanti buoni propositi, quella che chiamiamo Seconda repubblica è nata e si è via via affermata prendendo in prestito e recitando a modo suo tutti i luoghi comuni elaborati nel frattempo. L’avversario – fossero i comunisti o fosse Berlusconi – era per definizione un nemico. La soluzione dei problemi risiedeva nella loro (artificiosa) semplificazione. Il “teatrino” politico andava smobilitato di gran corsa.

E se poi qualche conto non tornava, qualche promessa si rivelava poco realistica e qualche mugugno si faceva sentire più del dovuto, ci si poteva comodamente rifugiare dentro il perimetro accogliente del populismo. Era a suo modo anche quella un’interpretazione del paese.

Dove la “ggente” era buona, e la politica cattiva (naturalmente la politica degli altri). Dove il popolo aveva tutti i meriti, e le élite tutte le colpe. Dove la virtù stava in basso, e in alto stava il peccato. E dove tutti questi racconti trovavano un’eco surreale proprio nei corridoi di quei palazzi. La narrazione populista veniva così diffusa e coltivata proprio nei giardini della politica. Di quella politica che ne sarebbe stata poi, inesorabilmente, la vittima.

A questo coro si sarebbero aggiunte via via altre voci. Di lì a poco Matteo Renzi con la sua “rottamazione” avrebbe aggiunto un altro tratto di percorso lungo quella stessa direttrice.

La liquidazione dei vecchi gruppi dirigenti, una parte dei quali si era furbescamente avvinghiata al proprio ipotetico giustiziere, veniva così indicata come l’ennesima scorciatoia per uscire dalla difficoltà del sistema.

Fino al tripudio di un referendum promosso per sancire una discutibile riforma accompagnandola con uno stucchevole argomento: la riduzione del numero delle poltrone. Argomento che, recitato dagli spalti di palazzo Chigi, non poteva che scontrarsi prima col buon gusto, poi con la coerenza e infine con gli elettori.

Una strada tracciata

Di lì in poi la strada per la vittoria dei populisti veri (i grillini, ma non solo loro) era ampiamente tracciata. E infatti alle elezioni di quattro anni fa hanno poi vinto tutti quelli che a buon diritto potevano proporsi come gli alfieri della rabbia popolare. Il M5s, ma anche la Lega. Salvo cadere alla prova del governo, come s’è visto. E però, una volta caduti, rialzarsi in nome delle mille combinazioni che ancora oggi sembrano riservare un ruolo e un futuro a loro e a tutti i loro imitatori e successori.

Ora però c’è da dire che tutta questa lunga discesa agli inferi della politica di questi anni si trova ora a impattare con la più drammatica crisi internazionale del dopoguerra. E da quella crisi sarà marchiata a fuoco.

Immaginare che le preferenze elettorali, e soprattutto le tendenze di opinione, il modo stesso di guardare alla dimensione pubblica, possano rimanere tali e quali appare infatti impossibile. Lo stesso destino del populismo, nel bene e nel male, ne verrà profondamente modificato.

È evidente infatti che questa crisi potrà aggiungere o sottrarre argomenti alla rappresentazione populista. Come si è detto, potrà indurre l’opinione pubblica a salire su di una trincea di protesta ancora più imponente, lamentando i costi che già stiamo cominciando a pagare (inflazione, forse recessione) e traendone la conseguenza che occorre radere al suolo quel che resta della nostra vecchia cittadella politica.

Oppure, al contrario, potrà risvegliare sentimenti più improntati alla prudenza e suggerire di non andare troppo oltre con tutte quelle animosità, quelle insofferenze e quegli sperimentalismi che hanno fatto da colonna sonora alla nostra più recente disputa pubblica.

L’anima del paese

Naturalmente sto semplificando con una certa brutalità questioni ben più complesse. Quello che conta rilevare, però, è che il populismo dopo la crisi ucraina non sarà più quello di prima.

E che a questo punto la sua spinta diventerà travolgente oppure, al contrario, si troverà a rifluire a seconda di quale piega prenderà l’opinione pubblica mano a mano che le conseguenze di questa tragedia, e le sue ricadute sul nostro paese, si faranno più nitide e definite.

E qui però diventa evidente un altro aspetto della questione. Ed è che proprio per questa sua drammaticità l’argomento toccherà corde assai più profonde nell’opinione pubblica.

Non sarà la classe dirigente a farsi mosca cocchiera come è accaduto nel recente passato. Sarà il paese, tutto il paese, a decidere di sé e a spingere quella carovana verso nuove conquiste o verso più prudenti ritirate.

La sorte del populismo, di qui in avanti, non sarà più il trastullo delle classi dirigenti. Sarà lo specchio in cui vedremo riflessa l’anima politica più profonda degli italiani. Quella che da molti e molti anni andiamo cercando.

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