Questo è il quarto di una serie di reportage in cui racconteremo cosa succede in Estonia, Lettonia e Lituania, i paesi europei e membri della Nato che dopo l’invasione dell’Ucraina temono di essere i prossimi. Qui potete leggere gli altri reportage della serie.


Igor Pimenov non credeva che la Russia avrebbe invaso l’Ucraina. A gennaio, mentre Putin concentrava le sue truppe ai confini, diceva ai suoi conoscenti: «Ma andiamo, per invadere l’Ucraina servono almeno mezzo milione di soldati!».

Pensava che Putin volesse soltanto segnalare che qualsiasi tentativo di risolvere con la forza la situazione del Donbass, la regione dell’Ucraina orientale occupata dai cosiddetti “separatisti”, avrebbe avuto una risposta altrettanto violenta. 

«Sembra che fossi nell’errore», dice oggi, mentre con gli occhi bassi osserva un bicchiere pieno di té fumante in un bar a pochi passi dal parlamento di Riga.

Una posizione scomoda

Pimenov è un lettone russofono, un appartenente alla minoranza che costituisce circa un terzo della popolazione del paese. Da oltre 15 anni è membro della Sejma, il parlamento lettone, dove è uno dei principali esponenti del partito socialdemocratico Armonia, il più grande del paese, anche se non è mai stato al governo, votato soprattutto dalla minoranza russofona.

Dopo l’invasione, Armonia e lo stesso Pimenov hanno condannato Putin e la guerra. «Io non accetto questa invasione. Io la condanno. Putin non è un mio alleato. Non ci sono socialdemocratici al Cremlino». Questioni che in Italia hanno diviso profondamente politica ed opinione pubblica, per Pimenov sono semplicissime. Aiutare l’Ucraina, anche con armi? «Dobbiamo fare di tutto per sostenere un paese aggredito».

Buona parte dei russofoni del paese la pensa come lui, oppure preferisce non esprimersi, diviso tra vicinanza culturale con la madrepatria di un tempo, lo shock per l’invasione e la lealtà al paese nel quale molti di loro sono nati. Ma per chi di loro desidera continuare a sentirsi russo e lettone allo stesso tempo, questo rischia di non essere abbastanza.

La metropoli dei baltici

Più dei suoi vicini, Estonia e Lituania, la Lettonia è un paese che si identifica con la sua capitale. Qui vive più di metà dei circa 2 milioni di abitanti del paese e si generano oltre due terzi del Pil nazionale.

Fondata nel 13esimo secolo da mercanti e avventurieri tedeschi, Riga è da sempre una città portuale di commerci e di scambi. Per secoli è stata la città più grande e ricca di tutto il Mar Baltico e il suo glorioso passato si intravede ancora nell’architettura barocca della Vecchia Riga, nelle proporzioni monumentali dei suoi edifici, dei suoi ponti e dei suoi viali. In una regione fatta di piccoli stati e piccole città, Riga è l’unica che può legittimamente aspirare al titolo di metropoli.

Ma negli ultimi decenni questa natura multietnica ha causato crescenti tensioni. Dopo la Seconda guerra mondiale, la Lettonia, come le vicine Estonia e Lituania, ha trascorso oltre mezzo secolo sotto l’occupazione Sovietica. I suoi abitanti sono stati deportati e centinaia di migliaia di russi sono emigrati nel paese, in quello che per anni è stato un pianificato tentativo di ingegneria etnica da parte delle autorità sovietiche. 

Una bandiera ucraina appesa ad una finestra vicino all'edificio dell'Accademia delle scienze lettoni, costruita in stile stalinista (Foto Davide Maria De Luca)

Nel 1991, alla caduta dell’Unione Sovietica, la Lettonia ha ottenuto l’indipendenza, ma, sostengono molti lettoni, la Russia non si è mai rassegnata alla perdita di quella che considera una provincia del suo impero. 

«Fin dalla nostra indipendenza siamo stati oggetto di una costante guerra ibrida e di propaganda», dice Mārtiņš Vargulis, 35enne ricercatore dell’Istituto lettone per gli affare esteri e astro nascente dei programmi televisivi che si occupano del conflitto in Ucraina. Vargulis ricorda diversi casi di finanziamenti russi a ong e altre associazioni filorusse, infiltrazioni dei servizi di intelligence. E ricorda che il partito Armonia, fino a prima dell’invasione, aveva un accordo politico con Russia Unita, il movimento di Putin.

La Lettonia è sempre stato il più vulnerabile dei paesi baltici a questo tipo di influenza. Riga era la terza città dell’Unione Sovietica, dopo Mosca e Leningrado, e grazie alla sua vicinanza con l’Occidente, e quindi alla possibilità di fare acquisti nel mercato nero, era una meta privilegiata per i funzionari comunisti.

Dopo l’indipendenza parte di questi legami è rimasta in piedi. La Lettonia è la repubblica baltica con i maggiori scambi economici con la Russia, mentre le sue élite politiche ed economiche, russofone, ma anche lettoni, hanno fatto ottimi affari con il potente vicino. Non è un caso se l’unico cittadino dei paesi baltici sulla lista delle recenti sanzioni sia un lettone: si tratta dell’oligarca Peter Aven, a cui il governo ha, forse incautamente, concesso la cittadinanza lettone nel 2016.

«Ma in ogni caso, il soft power della Russia è stato inefficace – dice Vargulis – moltissimi lettoni russofoni rimangono contrari alla guerra. In questi giorni abbiamo visto proteste pro Russia persino in Germania: in Lettonia non c’è niente del genere».

Secondo Vargulis, la guerra in realtà potrebbe persino essere un’occasione di mettere fine alle tensioni che da decenni avvelenano le relazioni tra i gruppi etnici del paese. Potrebbe essere, dice «un’occasione per ricostruire lo stato nazione Lettone». Significa, spiega, offrire un’opportunità ai russofoni di integrarsi maggiormente nel paese. 

«I russi sono scioccati, non vogliono più essere associati alla Russia in alcun modo. Dobbiamo fornirgli una nuova opportunità. I sondaggi ci dicono che il sostegno per Armonia sta calando. Questo ottobre abbiamo le elezioni: è il momento per i partiti lettoni di andare a prendere quei voti». Questo però è esattamente quello che alcuni russi temono.

Integrazione o assimilazione?

«Per molti politici lettoni la guerra in Ucraina è stata come un regalo – dice Pimenov – I nostri avversari sostengono che con i russi nessuna integrazione è possibile a meno che non decidano di smettere di essere russi. Ma noi siamo un partito socialdemocratico di nome e di fatto: proclamiamo che la diversità etnica di una nazione è un valore e un vantaggio».

Pimenov dice che soltanto i partiti della destra radicale lettone articolano apertamente le loro idee di assimilazione. «Gli altri non lo dicono, ma le loro politiche sono tutte puntate a costruire uno stato monoetnico. Il loro pensiero è che tutti i non lettoni debbano diventare lettoni, non subito, ma nel futuro. Sono contrari al multiculturalismo».

A malincuore ammette che i voti del suo partito Armonia stanno calando. Ma ad avvantaggiarsene, dice, rischia di essere la piccola Unione dei russi lettoni, un partito dalle posizioni molto più dure e pro-russe. E questo rischia di polarizzare ancora di più la situazione.

In risposta all’invasione dell’Ucraina, la scorsa settimana il governo conservatore della Lettonia e la maggioranza dei partiti hanno approvato una legge per rendere il 9 maggio, il giorno in cui i russi festeggiano la vittoria nella Seconda guerra mondiale e ricordano i loro caduti, la giornata del ricordo per le vittime della guerra in Ucraina.

Secondo Pimenov questo è gettare benzina sul fuoco. E sarebbe un atteggiamento opposto a quello della vicina Estonia, che dopo l’invasione ha promesso nuovi investimenti nelle aree più povere del paese, abitate soprattutto da russofono. Ci sarebbe anche di peggio. «Sulla mia scrivania ho un emendamento alla legge sull’educazione in cui sostanzialmente viene cancellata ogni lingua nel sistema educativo che non sia lettone».

L'estuario del fiume Daugava, quella che i russi chiamano Dvina. A sinistra, la città vecchia di Riga (foto Davide Maria De Luca)

Nel frattempo, continua a restare senza soluzione la questione dei “non-cittadini”: oltre 200mila russofoni che non parlando lettone non hanno ricevuto la cittadinanza al momento dell’indipendenza e ora vivono in un limbo con diritti limitati. Secondo Pimenov, queste politiche di assimilazione hanno avuto un’accelerazione dopo il 24 febbraio. «La spinta dei russi fuori dalla società viene fatta con il dito puntato a ciò che avviene in Ucraina».

Le elezioni del prossimo ottobre saranno un momento chiave per il futuro della piccola Lettonia e della sua capitale meticcia. In ogni caso, Pimenov non sembra intenzionato ad accettare le lusinghe di Putin, che ha promesso accoglienza ai russofoni sparsi in Europa. «Sono nato a Riga – dice – non ho altra madrepatria che questa».

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