Sembra una storia nota. Il 29 aprile 1945 i corpi di Mussolini, di Claretta Petacci e dei gerarchi fascisti, uccisi a Dongo sul lago di Como, furono portati a Milano in piazzale Loreto nella notte verso le 3.30. La notizia si diffuse presto in città. Era domenica.

I corpi appesi dei fascisti 

 (Ap Photo)

Gaetano Afeltra, che si recò sul piazzale con Dino Buzzati e Mario Borsa, prima delle 10, trovò i pompieri che cercavano di trattenere una folla euforica che voleva avvicinarsi e fare scempio dei cadaveri. I partigiani di guardia non riuscivano a contenerla.

Tra le 10 e le 11 sette corpi furono issati dai pompieri alla pensilina di un distributore di benzina in un angolo del piazzale. Alle 11.30 fu fucilato Achille Starace e issato al distributore insieme agli altri. Alle 12.30 giunsero tre autoblinde e quattro camionette americane, tre soldati sventolarono la bandiera a stelle e strisce davanti al corpo penzolante del Duce, il colonnello Charles Poletti, commissario per la Lombardia del governo militare alleato, si compiacque coi partigiani per l’ottimo lavoro fatto. Non più tardi delle 13.30 i corpi furono calati e portati all’obitorio, dove entrarono prima delle 14.

La percezione di queste poche ore si è espansa nell’immaginario collettivo, fino a trasfigurare l’episodio e a sovrapporsi a ogni altra memoria. Basta dilatare di due giorni, uno prima e uno dopo, l’obiettivo temporale per vedere una storia diversa.

Il giorno prima e il giorno dopo

Il 28 aprile verso le 15 arrivavano sul piazzale Loreto le colonne partigiane di Cino Moscatelli entrate in città dalla Valsesia, accolte da una folla in festa. Era la gioia della libertà, della fine del fascismo e della guerra.

Si raccolsero intorno a una staccionata di legno coperta di fiori.  C’erano le dirigenti dei Gruppi di difesa della donna e c’erano Franco Soncini e Marcella Chiorri Principato, che, oltre ad aver combattuto personalmente nella Resistenza, erano il figlio e la moglie di due dei Quindici uomini, che in quella piazza erano stati trucidati dai fascisti su ordine tedesco pochi mesi prima, il 10 agosto 1944.  Si tennero dei discorsi. Nessuno poteva immaginare quello che sarebbe successo poche ore dopo.

Il 30 aprile una folla molto più triste e silenziosa, si raccolse di nuovo sul piazzale dinanzi a una fotografia dei martiri del 10 agosto. La piazza era già stata intitolata piazza Quindici martiri. Fu poi il comune a voler preservare l’antica denominazione.

La sequenza dei tre giorni rende giustizia della storia, ma la memoria di piazzale Loreto è inesorabilmente soprattutto quella della violenta celebrazione della fine del regime fascista. Fu per una sorta di inevitabile «contrappasso» che i partigiani di ritorno stanchi e provati dal lago di Como decisero di propria iniziativa, non dei comandi del Cln, di scaricare su quel piazzale il loro macabro carico di cadaveri.

I Quindici martiri

Aligi Sassu, Martiri di Piazzale Loreto o La guerra civile, olio su tela, 1944, Galleria nazionale d'arte moderna e contemporanea, Roma (Foto  Flavio.arensi - Opera propria, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=25391115)

Il 10 agosto 1944 quindici uomini furono raccolti nel carcere di San Vittore alle 4.30 del mattino da agenti fascisti, scortati sul piazzale da militi fascisti, fucilati in modo disordinato e scomposto da un plotone della Legione fascista autonoma Ettore Muti. I corpi rimasero accatastati al sole d’agosto sul piazzale fino alle 20 di sera, inermi di fronte agli oltraggi delle guardie e allo sgomento dei passanti.

La presenza italiana fu dunque molto attiva nella realizzazione dell’eccidio, sia pure ordinato dal comando tedesco. In una fotografia dei corpi sul selciato c’è in mezzo un cartello, nel quale si intravedono otto righe, che sono riuscito faticosamente a decifrare, servendomi soprattutto di riscontri d’archivio: «Il giorno 8.8.44 sul viale Abruzzi ad opera di elementi | della «Gap» è stato commesso un atto di sabotaggio per | cui dei bambini, donne e uomini sono stati uccisi ed altri | 13 passanti innocenti gravemente feriti. | Il giorno 9.8.44 sul piazzale Tonoli è stato deliberatamente | assassinato un ufficiale italiano e ferito gravemente un soldato. | Per questi delitti sono stati fucilati questi 15 individui appar- | tenenti alle Ggap colpevoli di assassinio, rapina e sabotaggio».

L’eccidio fu dunque da subito rivendicato come rappresaglia per due episodi nei quali le vittime furono solo italiani. Il cartello accusava i Gap (Gruppi di azione patriottica), anche se nessuno dei quindici martiri era gappista, come subito dichiarò con un manifesto anche la «Federazione milanese del Partito comunista italiano».

L’atto di sabotaggio

L’episodio più controverso è quello dell’«atto di sabotaggio» compiuto in viale Abruzzi. Se ne è parlato tanto. Il cartello non accenna a vittime tedesche, né alcun altro documento ufficiale relativo all’episodio, né i pochi testimoni oculari. Nessuna evidenza in tal senso sarebbe emersa nemmeno durante il processo che condannò per l’eccidio il solo capitano delle Ss Theodor Emil Saevecke nel 1999.

Una recente ricerca di Elisabetta Colombo (Il nostro silenzio avrà una voce. Piazzale Loreto: fatti e memoria, scritto con Anna Modena e Giovanni Scirocco, il Mulino, 2021) segnala opportunamente in un Bollettino delle azioni dei Gap e delle Sap milanesi, proveniente dall’archi­vio della direzione del Pci, e consegnato nel 1959 all’Istituto Gramsci di Roma, un rendiconto gappista dell’attentato di viale Abruzzi, nel quale si parla di un «cammion [sic] tedesco carico di munizioni», di «un tedesco che si mise all’inseguimento di un Gap», di un tedesco che avrebbe fatto in tempo «a togliere una bomba dal cammion [sic] e buttarla in mezzo la strada» e infine di «due tedeschi uccisi».

Tutti particolari che non trovano riscontro negli altri documenti in nostro possesso, che parlano di autocarro «lasciato incustodito» e per le bombe sembrano fare riferimento a congegni a tempo. Si potrebbe addirittura pensare che questi particolari siano stati aggiunti da chi relazionava per giustificare un attentato non andato a buon fine, compresa la data sbagliata del 7 agosto, anziché dell’8, oppure che chi scriveva poco sapeva di quanto accaduto o confondeva due episodi.

Si sente l’esigenza di un supplemento di indagine, che riguardi complessivamente le modalità di azione dei Gap a Milano e la loro rete di contatti, anche per verificare se e quanto si potesse intrecciare con quella dei Quindici martiri.

Chi erano i Quindici

Foto: screen sito web Patria indipendente  https://www.patriaindipendente.it/persone-e-luoghi/profili-partigiani/10-agosto-1944-i-15-martiri-di-piazzale-loreto/

Dei Quindici si è sempre voluto parlare poco. Erano gli esponenti di una rete attiva della Resistenza nel nord Italia. Non so se tutti si conoscevano, ma erano collegati tra loro. Erano stati organizzatori degli scioperi del marzo 1944, diffusori di propaganda clandestina, avevano reclutato forze alla Resistenza in stretto contatto con le brigate partigiane sulle montagne e con gli Alleati. La loro non era una Resistenza organizzata per bande, ma agivano coesi al di sopra delle loro personali convinzioni politiche e dei loro ruoli sociali, nell’interesse della patria.

Giulio Casiraghi, operaio comunista, e Umberto Fogagnolo, ingegnere azionista, lavoravano insieme dentro e fuori la Ercole Marelli, così Salvatore Principato, insegnante, lavorava a stretto contatto con l’operaio della Pirelli Eraldo Soncini, entrambi socialisti.

C’erano i comunisti Andrea Esposito e Libero Temolo, il meccanico socialista Angelo Poletti, il commerciante Antonio Bravin, il dirigente cattolico Vittorio Gasparini, che teneva i contatti radio con gli Alleati, l’agente di pubblica sicurezza Emidio Mastrodomenico, oltre a Domenico Fiorani, perito industriale socialista impiegato alle acciaierie Falck, in stretto contatto con Enrico Falck, che finanziava la Resistenza.

I più giovani erano Renzo Del Riccio, Giovanni Galimberti, Andrea Ragni, Vitale Vertemati. Il più anziano, Salvatore Principato aveva 52 anni, il più giovane, Renzo Del Ricco, ne aveva 21. Nessuna formula li può rappresentare, né quelle diffuse negli anni Sessanta e Settanta di «martiri operai» o di «ragazzi» di piazzale Loreto, né ancor meno quella di vittime della guerra civile o della violenza fascista. È prima di tutto la loro storia che va ricostruita e restituita.

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