Calcio e autismo. Istintivamente, a metterle insieme, le due parole fanno a pugni. Da una parte il senso di squadra, il linguaggio comune, la sfida per dominare le mille combinazioni fra traiettorie del pallone e gestualità di un corpo. Dall’altra una condizione che fa pensare subito a un ripiegarsi su sé stessi, un trionfo dell’isolamento, un’interazione complicata, difficile, qualche volta del tutto assente.

Eppure c’è qualcuno che in questi anni ha sfidato i luoghi comuni, ha combattuto questa distanza, l’ha piano piano ridotta, sicuramente trasformata. In un percorso che sta durando, e forse in questo numero c’è la notizia più importante, da 10 anni. Era il 2015 quando prese il via a Roma la storia dell’Accademia di calcio integrato. Sarebbe dovuta durare qualche mese, ora i bambini di allora sono diventati maggiorenni.

Un’opportunità per il “dopo”

Intanto il punto di partenza: tre persone, un passaparola fra le famiglie che diventa virale e una società di calcio che decide di dare una mano importante. Il progetto, infatti, studiato e lanciato da Patrizia Minocchi, Maresa Bavota e Alberto Cei (autore con Daniela Sepio di “Autismo e calcio, una nuova metodologia d’integrazione e insegnamento”) ha incontrato l’aiuto dell’As Roma.

Ma questa non è una favola, è un viaggio, anche pieno di difficoltà. Che però alla fine è capace persino di arrivare a una puntata successiva, quella del “dopo di noi”, un “dopo di noi” però speciale, giocato, perdonateci la metafora, all’attacco, insomma fatto di una cosa a cui all’inizio della storia sarebbe stato impossibile credere. L’idea che questi giovanissimi calciatori diventando più grandi possano lavorare nello sport, cambiando dunque la prospettiva, diventare “assistenti istruttori” e pronunciare una frase in cui si intravede un mondo: «Mi sono spinto da solo». Questo “spingersi” significa avere accumulato un’esperienza di duemila ore sul campo e di un esame fatto da 36 domande a cui rispondere davanti a un computer.

Non è la prima volta che le persone con disturbo dello spettro autistico si cimentano in attività sportive. Nel mondo paralimpico è in atto una rivoluzione, una travolgente moltiplicazione della domanda di sport che fatica a rientrare nella sofferta divisione fra categorie.

L’esempio più conosciuto nel mondo dell’autismo è forse quello dell’atletica, il Progetto Filippide, una storia nata dall’incontro fra un allenatore e un suo vicino di casa, Nicola Pintus e Alberto Rubino, un legame che da un primo sorprendente viaggio sull’Himalaya è diventato negli anni un’attività quotidiana in tanti pezzi d’Italia, in cui attraverso l’esercizio della corsa si sono abbattuti tanti muri. Ma Filippide, nel senso di Progetto, un po’ come il soldato greco all’origine del mito della maratona, è stato soltanto un apripista.

Questa domanda di sport si è riprodotta. Tanto per restare a Roma, negli anni un itinerario simile l’hanno fatto alcune ragazze e ragazzi nella scherma grazie all’Accademia Lia e al suo ideatore, Luigi Mazzone, un medico all’avanguardia nello studio dell’autismo, oggi diventato presidente della Federscherma. L’ultima arrivata è l’arrampicata sportiva: ogni sabato a Tor di Quinto, al circolo della polizia, a un chilometro dallo stadio Olimpico, ecco i ragazzi che si ritrovano con le loro famiglie e condividono questi su e giù sulla parete con l’associazione Sinapsi.

L’eccezionalità del calcio

Il fatto è che la squadra, il senso di gruppo, sembra la cosa più lontana da queste persone tutte “dentro se stesse”. Se in uno sport individuale o in un gesto ripetitivo l’istinto dell’emulazione può assicurare una buona base di partenza – io corro, tu corri con me – la dinamica di costruzione di un’azione o di un meccanismo ti porta su una strada più accidentata. E non è un caso che gli studi e le sperimentazioni sul calcio siano rarissimi.

Ovviamente si tratta di una costruzione paziente: nessuna pressione eccessiva, linguaggio concreto, ripetizioni di esercizi collettivi anche con qualche significativo prestito da altri sport, dall’”orologio basket" al “calcio golf”. Consapevoli che non tutti gli individui sono uguali e per questo i ragazzi sono stati divisi anche in diversi gruppi, si passa dalle prime esperienze con giochi con la palla fino alle partite cinque contro cinque o otto contro otto con giocatrici e giocatori della Roma.

I risultati di questo percorso sono stati apprezzati senza retorica dai 28 operatori professionisti e dalle 80 famiglie coinvolte nel progetto. Un riassunto di questa esperienza, fatta anche dalle voci dei ragazzi e dei loro genitori, è diventato un podcast distribuito da Fandango sulle principali piattaforme. Anche in questo caso il titolo ha una sua dolce eloquenza, “Chiamami mister”. Perché sì, l’Accademia di calcio integrato ha allungato il suo sguardo e non è solo una sorta di tempo “occupato” per aiutare le famiglie e “distrarre”, ma una scommessa più ambiziosa. Dunque, non solo avvicinare quelle due parole, calcio e autismo, ma farle stare insieme.

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