Eravamo al Tour de France, Pogačar aveva la maglia gialla da giorni, con un vantaggio talmente ampio da escludere ribaltamenti. E di colpo, sul podio, abbiamo visto il re imbronciato. Lui che ha sempre fatto collezione di corse, imprese, traguardi, per la prima volta sembrava infastidito. «Sono a un punto in cui mi chiedo perché sono ancora qui. Non vedo l'ora che il Tour finisca per potermi divertire di nuovo». Ritratto di un cannibale che invidia la libertà degli avversari
Sta per partire – sabato, da Torino – il terzo grande Giro dell’anno, la Vuelta a España, e il ciclismo si interroga sul suo signore e padrone. Raramente in uno sport si è vista un’onnipotenza come quella di Tadej Pogačar, lo sloveno che a 26 anni ha già vinto quattro Tour de France, un Giro d'Italia, un mondiale in linea, nove classiche Monumento, eccetera eccetera.
Ci siamo abituati in fretta: a dare quasi per scontato che quando c’è lui al via la lotta è per il secondo posto, a vederlo sempre più cannibale, a considerare normale Pogačar che attacca a 50, 60, addirittura a 100 chilometri dal traguardo. E a questo andazzo hanno cominciato ad adeguarsi anche i suoi avversari, che lo giudicano «ingiocabile». Lo abbiamo chiamato cannibale, lo abbiamo paragonato a Merckx, lo stesso Merckx si è prestato al gioco. «Mi domandate chi si avvicina di più alla mia mentalità? Pogačar: corre, vince, perde, e ricomincia. Partecipa a tutto quello che può e ha mille volte ragione. È così che io concepisco la bici».
La ferita del re
Ma all’improvviso, il mese scorso, è successo qualcosa: di colpo si è aperta una crepa, e da lì è filtrata una lama di buio nella luce accecante. Eravamo al Tour de France, Pogačar aveva la maglia gialla da giorni, con un vantaggio talmente ampio da escludere ribaltamenti. E di colpo, sul podio, abbiamo visto il re imbronciato. Lui che ha sempre fatto collezione di corse, imprese, traguardi, per la prima volta sembrava infastidito.
«Sono a un punto in cui mi chiedo perché sono ancora qui. Non vedo l'ora che il Tour finisca per potermi divertire di nuovo». Non è divertente seguire le tattiche, limitarti a difendere il vantaggio, o ascoltare quello che ti dice il direttore sportivo, che ti consiglia di lasciare qualche briciola agli altri per non diventare antipatico. Ma come? La gente aveva cominciato ad amarlo proprio perché non seguiva strategie, perché ignorava la prudenza, perché buttava all’aria anni di luoghi comuni. E all’improvviso deve fare come fan tutti per non dare nell’occhio?
È destino di chi vince troppo cominciare a piacere meno. Solo ieri era il giovane sloveno con i ciuffetti biondi che uscivano dal casco, simboli plastici del suo essere impossibile da ingabbiare. E adesso è già diventato l’ingordo che vince troppo, l’uomo che costringe gli organizzatori a disegnare un Tour per metterlo in buca: con 10 tappe prima del primo giorno di riposo sulle strade strette, tortuose e piene di vento del nord della Francia, nel tentativo di fiaccare la sua squadra prima delle salite.
Anche Merckx nel 1972, dopo aver vinto il suo quarto Tour, capì di essere diventato antipatico ai francesi, quelli che vincono troppo suscitano da sempre sospetti. Ci vuole un attimo a diventare antipatico. Ma se sei sempre piaciuto a tutti, accettarlo è difficile. Qualche giorno fa Pogačar è stato fotografato con una maglietta nuova, non quella arcobaleno di campione del mondo. Sopra c’era scritto: Non disturbare.
E poi: Niente fotografie. E sulla manica: Niente video. Erano battute o Tadej ha cominciato a difendersi dal resto del mondo? Siamo sicuri che non sia diventato cattivo?
L’invidia per MvdP
La prima volta Pogačar vinse il Tour rovesciando l’ordine costituito, e togliendolo al suo connazionale Primoz Roglic (cosa che molti tifosi sloveni non gli hanno mai perdonato), la seconda volta lo vinse di prepotenza, la terza fu una specie di vendetta. Questa volta il Tour lo ha soffocato nel sonno, e l’impressione è che un giorno sarà ricordato soltanto come uno dei tanti della lista. Negli anni il Tour sembra essere diventato la sua condanna, Pogačar non ha mai nascosto di trovare più divertenti le classiche, e di certo invidia Mathieu van der Poel non soltanto perché è tutto quello che lui non è (uomo da classiche, più alto, più pesante, più multidisciplinare) ma anche per la libertà che la sua squadra gli concede.
L’olandese può correre il ciclocross d’inverno, ostinarsi a inseguire la mountain bike, andare al Tour per divertirsi, come quando è stato in fuga un giorno intero per consentire a un suo amico che lo desiderava tanto di salire sul podio di miglior combattivo. Pogačar tutto questo non lo può fare: perché corre nella squadra numero 1 al mondo, che certamente vorrà farlo arrivare a vincere sei Tour, come mai nessuno prima.
Se c’è uno che può riuscirci, quello è Pogačar. Ha il talento, il fisico, la testa, e ha la squadra. Però c’è quella crepa, che lascia intravedere un lato oscuro. «Purtroppo, ogni anno sono costretto a partecipare al Tour», ha detto rassegnato all’ultimo Delfinato. Non era un gioco: se dipendesse da lui preferirebbe dedicarsi alle classiche, soprattutto a quelle che gli mancano, come la Milano-Sanremo e la Parigi-Roubaix. Un conto è dominare una corsa di un giorno, un conto è fare classifica in una gara di 21 tappe, che impone mesi di preparazione e sacrifici, e settimane di ritiri in altura. Per quale risultato? Parliamoci chiaro: ormai Pogačar farebbe notizia soltanto se non vincesse. E poi è proprio il format del grande Giro che – a dispetto delle sue qualità fisiche, che lo rendono uno dei più grandi interpreti di una corsa di tre settimane – è del tutto opposto alla sua indole.
Per fare classifica in un Tour bisogna (anche) essere prudenti, in un certo senso conservatori, formichine. Pogacar è una cicala, ha un istinto a strafare che se lo porta via. Ha vinto i primi tre a modo suo, e allo stesso modo ha vinto il suo primo Giro l’anno scorso. Ma quando per vincere il quarto Tour gli hanno chiesto di tirare il freno, gli è scesa l’adrenalina.
«Il suo broncio, i suoi brontolii, il suo malumore generale per diversi giorni hanno offuscato e sconvolto l'atmosfera alla fine del Tour de France», ha scritto Alexandre Roos su L’Équipe, il giornale degli organizzatori. «Come possiamo essere entusiasti se la maglia gialla stessa dà l'impressione di annoiarsi, di vivere un'esperienza dolorosa, di essere imbronciata quando ha realizzato una corsa eccezionale, quattro vittorie di tappa e una padronanza totale?». Non l’hanno presa bene.
Andarsene
Come Pogačar, del resto. «Non nascondo che sto già contando gli anni che mi separano dal ritiro. Ho iniziato a vincere presto, e potrebbero esserci risultati peggiori, sono pronto a tutto. Probabilmente correrò ancora qualche Tour, anche se non si può mai dire con certezza», ha detto ai giornalisti amici, in Slovenia.
L’orizzonte che si è dato è quello delle Olimpiadi del 2028: alle ultime ha rinunciato per solidarietà con la sua compagna Urska Zigart, che non era stata convocata. A Los Angeles Pogačar avrà 29 anni. Magari avrà vinto sei o sette Tour, forse la Sanremo, magari la Roubaix. Certo anche una Vuelta, ma non questa. In Piemonte non ci sarà. Ha preferito preparare il Mondiale, che si corre in un giorno solo. Dunque tre settimane senza Pogačar, a occhio non ci annoieremo. E certo neanche lui.
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