Bond è legato a una sedia, nudo. Il perfido Le Chiffre pretende da lui i codici per accedere a tanti soldini sporchi che James gli ha sottratto. Le Chiffre taglia la paglia della seduta. In mano ha un grosso canapo annodato. Lo fa roteare e poi, da sotto, colpisce James che urla. Dopo il terzo attentato ai suoi attributi maschili James inizia a ridere e senza rivelare al villain di turno quanto questi desidera gli dice: ho un prurito da quelle parti, potresti darmi una grattatina? Proprio lì sotto.

Togliete Bond (film: Casino Royale) e metteteci la Coppa Davis legata a quella sedia. Intesa come essere vivente a sé stante: la vicenda non cambia. In molti (soprattutto i suoi padroni) hanno fatto di tutto per privarla della sua natura a colpi di canapo annodato. Hanno provato a salvarla modificando (o provandoci) il suo dna. Hanno tentato di mettere da parte le sue radici che assumevano la linfa vitale da una tradizione unica nella storia dello sport per trasformarla in un prodotto appetibile da giocatori, sponsor e pubblico: e si sono ritrovati sì con un gruppo bancario che ha assicurato un decennio di finanziamenti ma con pubblico in molti casi non oceanico e soprattutto (come nel caso di Bologna) con un solo top-10 in campo fra tutte le otto Nazionali in campo.

Eppure, eppure. A Bologna la Davis ha reagito e a ben vedere succede quasi sempre; ma stavolta di più. Ha riso in faccia, anche se legata a una sedia, ai suoi detrattori e ha mostrato di cosa è capace. E si badi bene: a fine novembre, dopo un anno intero di tennis massacrante. L’anima della Davis crea storie che restano. Anche se i top players latitano. In quell’unico spazio vitale rimasto che è la settimana della Finals.

Potere mistico

Non si capisce bene come ci riesca, a dire il vero: non è che ci siano regole particolari, coloro che la martellano hanno avuto pure la brillantissima idea di privarla del format che condivideva con i tornei dello Slam, le partite al meglio dei cinque set. Eppure succede. E c’è qualcosa di mistico in questo, come se la forza di una storia centenario avesse la meglio su quella del mercato.

In pochi giorni di gara bolognese gli esempi si sprecano. Il match di Flavio Cobolli contro il belga Bergs di venerdì sera (poco più di 3 milioni di telespettatori su Rai 1: mancava l’effetto Sinner, domenica alle 15 la finalissima contro la Spagna, che in semifinale ha avuto la meglio sulla Germania) non è stato che l’ultimo in ordine di tempo. Una partita priva dei livelli tecnici di un “Sincaraz”, ma straricca di una tensione umana e di una spettacolarità emotiva che i due super-interpreti del tennis contemporaneo se le sognano. Difficile dissentire dal coach azzurro Volandri quando ha detto, nel dopopartita, che una cosa del genere lui non l’aveva mai vista.

Flavio Cobolli esulta con coach Filippo Volandri dopo la vittoria contro il Belgio che ha garantito all'Italia un posto nella finale di domenica (FOTO ANSA)
Flavio Cobolli esulta con coach Filippo Volandri dopo la vittoria contro il Belgio che ha garantito all'Italia un posto nella finale di domenica (FOTO ANSA)
Flavio Cobolli esulta con coach Filippo Volandri dopo la vittoria contro il Belgio che ha garantito all'Italia un posto nella finale di domenica (FOTO ANSA)

Forse dovrebbe parlarne, tanto per fare un esempio, con Stan Wawrinka e Marco Chiudinelli, che dodici anni fa persero un doppio contro la Repubblica Ceca di Berdych e Rosol (Berdych è oggi capitano non giocatore dei cechi) dopo sette ore di guerra aperta. Dopo la rivoluzione-Piquè quei tempi non sono più raggiungibili, ma il match di Cobolli con i 7 match point non concretizzati da Bergs e i 6 dell’azzurro sono l’equivalente emotivo di quegli incontri.

Pianisti francesi e doppi infiniti

E non si è trattato di un caso unico. Il tentato e fallito colpo sotto le gambe da parte di Corentin Moutet, il pianista (nel senso letterale, ama suonare il pianoforte) francese, che gli è costato il match contro il belga Collignon, è diventato in pochi secondi paradigma del verbo di chi esce dagli schemi, rischia tutto e perde tutto. Anche per una certa somiglianza fisica, Moutet (ricoperto di vituperie dai suoi connazionali e probabilmente anche dai compagni di squadra) è assurto al ruolo di Charlie Brown del tennis. Quello che, in una striscia passata alla storia, sta giocando a baseball e pensa: sta per arrivare la palla, se non la prenderò sarò un fallito. Manco a dirlo la palla arriva, Charlie non la acchiappa e nell’ultimo riquadro dice laconicamente: sono un fallito.

E che dire del doppio Germania-Argentina concluso a notte fonda dopo una caterva di matchpoint non sfruttati con Zverev che festeggia i compagni come dei trionfatori reduci da una battaglia nelle Ardenne? E di Struff che contro Carreno Busta, nella semifinale, sperpera un vantaggio di 6-1 del tie-break? E a ben vedere: la voglia raccontare la storia di Bolelli e Vavassori, i doppisti che la Davis la preparano, la aspettano e poi non ci giocano mai? E se dovesse succedere in finale, in un unico atto che inevitabilmente varrebbe una carriera? Possibile.

Senso comunitario

Come l’anima della Davis possa produrre queste storie in un mondo standardizzato e fortemente polarizzato è un bellissimo mistero. Come il Bond interpretato da Craig la Davis ride in faccia ai suoi finti amici e si erge e custode di quelle ondate emotive che sempre più rare a trovarsi nel corso dell’anno. Il momento chiave del grande balzo in avanti di Jannik Sinner fu in Davis: quando annullò tre match point a Djokovic in singolare, lo sconfisse e poi lo umiliò in doppio.

Forza del senso di appartenenza a una bandiera? Ovviamente c’è chi ritiene che abbia ragione Italo Bocchino quando dice che i calciatori sono stati privati nel corso degli anni della giusta dose di indottrinamento nazionalistico. Seguendo questo ragionamento (insomma) i tennisti, sotto sotto, quel senso l’avrebbero coltivato: balle spaziali.

In realtà la Davis conserva quel senso del tennis comunitario e non individualista che gratifica chi la gioca. In più si sta profilando una nuova prospettiva: e se il fatto che i top player la snobbano si rivelasse nel prossimo futuro un atout invece di un limite? Con in campo giocatori che sputano l’anima perché sanno che quel palcoscenico può regalare loro una eterna gloria (espressione che piacerebbe molto a quelli di cui sopra che sproloquiano di patria e nazione) senza essere oscurati da quei due superuomini che in futuro potrebbero diventare tre o quattro?

E se qualcuno si accorgesse che questa caratteristica è un tesoro enorme, insostituibile, su cui fondare un business che funzioni? Chissà se avranno la prontezza di accorgersene coloro i quali la Davis la prendono a cordate negli zebedei.

© Riproduzione riservata