Nel 2009, i paesi ricchi del mondo fecero una promessa a quelli più poveri: avrebbero fornito 100 miliardi di dollari all’anno per finanziare l’adattamento dei più poveri ai cambiamenti climatici. In termini relativi, si trattava di un gesto tutto sommato piccolo rispetto a ciò che sappiamo essere necessario per rendere resilienti ai cambiamenti climatici le economie più vulnerabili. Ma si trattava comunque di un segnale politico importante.

La promessa fu rinnovata sei anni dopo, nell’accordo di Parigi. E poi di nuovo al G7 in Cornovaglia. E di nuovo ancora a Glasgow alla fine dell’anno scorso. Ma dopo oltre dieci anni, questa promessa non è stata mantenuta. Ad oggi, questa inadempienza persiste. Sembra quasi che quei finanziamenti siano visti come un impegno morale, ma politicamente e praticamente secondario.

Una tale valutazione è un errore. Rivela un’incomprensione profonda della natura dei rischi che ci troviamo ad affrontare, e di dove risieda la mostra vulnerabilità più pericolosa a fronte dei cambiamenti climatici in corso.

Popoli del mare

Gli archeologi e gli storici dell’ambiente spesso scoprono reperti che dimostrano come, nei secoli, il più grosso rischio per le società ricche non sia stato il cambiamento diretto delle proprie condizioni materiali, bensì la risposta, indiretta, che si trovano ad affrontare per impatti che si manifestano altrove.

Alla fine dell’età del bronzo, circa 3.500 anni fa, sulla costa siriana Ugarit era una delle capitali più grandi, ricche, multiculturali del vicino oriente, parte di un sistema economico regionale integrato. Poi, scomparve, dimenticata per oltre 31 secoli. Oggi sappiamo che la fine di Ugarit avvenne durante un periodo di profondo cambiamento climatico. Ma la sua scomparsa non fu il risultato diretto di un peggioramento delle condizioni materiali di quella popolazione.

L’ipotesi dominante è che Ugarit fu distrutta, improvvisamente, da gente che potrebbe essere arrivata dai Balcani del nord. Là, i cambiamenti nelle condizioni climatiche causarono il collasso di sistemi agro-pastorali altamente vulnerabili. Pastori e agricoltori, interamente dipendenti dalle piogge per la loro sopravvivenza, furono costretti a muoversi.

Questi “popoli del mare” – come poi vennero poi chiamati dagli archeologi del diciannovesimo secolo – lasciarono dietro di sé una scia di distruzione che cominciò in Anatolia, attraversò il Levante, e arrivò fino in Egitto. Dai reperti trovati, sappiamo che queste popolazioni erano accompagnate da famiglie, portavano con sé vettovaglie. Non avevano nessuna intenzione di tornare indietro. Non erano invasori: erano migranti.

Ai margini

(Agf)

I cambiamenti climatici sono pericolosi perché trasformano la realtà di coloro che sono più vulnerabili. È la loro la reazione ad essere la più significativa. In alcuni casi, la catena di eventi innescata da questi cambiamenti può risultare molto lunga. Nel quarto secolo d.C., gli Unni — forse la tribù degli Hsiung-Nu del nord est dell’Asia — si spostò verso ovest, in parte a causa di un cambiamento delle condizioni idrologiche, raggiungendo le coste nord del mar Nero.

I Goti, che vivevano una vita ai margini di quelle zone aride, erano una popolazione vulnerabile. Di fronte all’invasione, scapparono verso la frontiera romana in cerca di sicurezza. Nell’estate del 376 d.C. cominciarono a riversarsi oltre il confine in numeri sempre crescenti.

Dai tempi di Adriano, la diplomazia e le politiche romane di inclusione al confine avevano assicurato la stabilità. Ma questa volta non funzionarono. Roma perse il controllo del confine, iniziando una spirale che, nel corso di un secolo, avrebbe portato alla caduta dell’impero d’occidente.

Dust bowl

Un campo nel Kansas nel 1939, coltivato con nuove protezioni per proteggerlo dalle tempeste di sabbia (AP Photo)

Meccanismi come questo si sono ripetuti nel tempo. Nel tredicesimo secolo d.C., condizioni umide nelle steppe dell’Asia aumentarono la produttività delle praterie, espandendo il territorio accessibile all’economia della pastorizia delle tribù mongole. Queste popolazioni si spinsero verso ovest, seguendo le steppe verso l’Europa orientale, entrando nelle pianure ungheresi nel 1241. Le loro incursioni hanno lasciato una memoria indelebile nella coscienza europea.

Queste storie non si limitano al passato più remoto. Alla fine del diciannovesimo secolo, le siccità colpirono la produzione agricola europea, spingendo quattro milioni di persone ad emigrare verso gli Stati Uniti. Molti sbarcarono nelle città americane, portando con sé valigie piene di radicalismo e di un “feroce malcontento”. In risposta, il governo americano raddoppiò i termini dell’Homestead act, la legislazione che incoraggiava i coloni a spostarsi verso le grandi praterie dell’ovest.

Il governo americano sperava che, incoraggiando questa migrazione interna, si potessero disinnescare le tensioni tra gli immigrati europei e le classi lavoratrici urbane. I coloni si spostarono in effetti in massa, ma la pioggia che era stata loro promessa, quella che doveva “seguire l’aratro”, non si manifestò. Si preparò così il terreno per il disastro ambientale e sociale che fu il Dust bowl, il collasso ecologico delle grandi praterie americane, una serie di tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939.

Interconnessi

Più recentemente, la siccità del 2010 in Russia e in Cina fece schizzare in alto i prezzi del grano all’ingrosso, mettendo sotto pressione le finanze di vari paesi del nord Africa, importatori cronici di cereali. La tensione contribuì a destabilizzare la regione, in parte alimentando la primavera araba. Il successivo collasso del regime libico del colonnello Gheddafi aprì un corridoio migratorio dal Sahel al Mediterraneo, attraverso il quale continuano a passare coloro che fuggono da condizioni economiche e sociali difficili verso le coste dell’Europa.  

Per essere chiari, le persone e le società hanno arbitrio e potere di azione, anche di fronte al collasso ambientale: la caduta dell’Impero romano d’occidente fu un processo secolare con molte cause istituzionali; la primavera araba fu un movimento di popoli oppressi in cerca di libertà. Ma questi esempi suggeriscono anche che, nell’inevitabile dialettica tra la società e le condizioni ambientali nella quale è immersa, tutti sono colpiti dagli impatti sofferti dai più vulnerabili. In un mondo interconnesso, come del resto ha dimostrato la pandemia, nessuno è al sicuro finché tutti non lo sono.

Una pessima scelta

L’esitazione dei paesi ricchi nel fornire supporto finanziario per gestire i cambiamenti climatici, promesso alle nazioni più povere, non è solo ingenerosa. È imprudente. Se i paesi in via di sviluppo non riuscissero a proteggere la propria popolazione dalla forza di un ambiente che cambia, si potrebbero mettere in moto eventi dalle conseguenze pericolose.

Nei paesi poveri, 2,5 miliardi di persone dipendono interamente da un’agricoltura alla mercé di piogge variabili. Almeno 1,5 miliardi di questi sono piccoli coltivatori, particolarmente vulnerabili a cambiamenti climatici. La storia suggerisce che la sicurezza delle nazioni più ricche dipende anche dalle condizioni di questi più poveri e dal fatto che abbiano le infrastrutture e istituzioni necessari per mettere in sicurezza il proprio futuro, ovunque essi vivano.

Senza gli investimenti necessari per aumentare la resilienza di tutti, le conseguenze destabilizzanti dei cambiamenti climatici sulla distribuzione dell’acqua potrebbero portare molte più persone sulle coste dei paesi ricchi, incoraggiati a muoversi dall’accesso universale ad immagini di una vita migliore e più sicura. L’incapacità dei paesi ricchi di onorare le promesse fatte per migliorare la resilienza dei paesi in via di sviluppo non è solo moralmente indifendibile. È anche una pessima scelta strategica e politica.

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